Elsa Peretti (1940-2021), italiana da esportazione  

Rivoluzione da Tiffany

Michele Masneri

Da Roma a New York. La carriera da modella e poi i gioielli leggendari. La lotta con la famiglia e la beneficenza

In tempi di femminismo fiorente e combattivo, è curioso che una storia così pazzesca di empowerment romano-globale non se la siano filata poi in tanti. Quella di Elsa Peretti, ragazza ribelle e poi it girl  e ancora designer e infine filantropa con soldi veri e suoi. Mancata il 18 marzo (1940-2021), fu erede di una grande fortuna in un paese che non ne produce molte, eppure mollò il padre-padrone e se ne fuggì in Spagna e poi a New York: modella, poi disegnatrice di famosi gioielli “popolari”, creatrice di un successo transatlantico ed estetico – le sue invenzioni stanno addosso alle signore di mezzo mondo, da Kate Middleton in su o in giù,  e nei musei sono e rimarranno.  

 

 

“La conobbi nei primi anni Settanta a New York con Marina Schiano, una delle muse di Saint Laurent, e lo stilista Halston che era un suo grande amico”, dice al Foglio Marina Cicogna, produttrice, socialite, musa at large. “Naturalmente lei sa la storia dello zibellino”. Veramente no. “Eh niente, Halston glie l’aveva appena dato, lei lo prese e lo buttò sul fuoco”. Breve sunto: era il 1976 e Halston, fondamentale stilista americano, chiese a Elsa di disegnargli la bottiglia per un nuovo profumo che voleva lanciare. Lei volle farlo tondeggiante contro i manager inorriditi: non c’era mai stato un profumo tondeggiante, le bottiglie dovevano essere rettangolari. Invece naturalmente fu il più grande successo della storia della profumeria.

 

Lo stilista e amico per ricompensarla del colpaccio le chiese se preferiva soldi – 25 mila dollari dell’epoca – o una pelliccia di zibellino,  lei disse pelliccia. Però lui era distante, freddo, parlava solo d’affari. Lei voleva più affetto da quest’ amico che parlava solo di fatturati, in linea con un’umanità che viene fuori da tutti i racconti di chi la conobbe. Ma Halston era gay, no? “Ah, super gay, non c’è alcun dubbio”, dice Marina Cicogna. “Allora lei per dimostrargli che i soldi non erano tutto nella loro amicizia  gettò la pelliccia nel caminetto”.  Questo accadeva nel villaggio spagnolo di Sant Martí Vell in Catalogna, che lei aveva comprato tutto intero nel ’68  per rifugiarvisi, modella e jeune fille,  dai bagordi newyorchesi – “era il periodo Studio 54, tutta quella cosa lì”, dice Cicogna. 

 

 

Halston era stato un po’ il suo spirito guida, l’aveva presentata  a Tiffany, in quella che sarà per lei la svolta: per il colossale gioielliere americano oggi passato con complicata trattativa alla francese Lvmh, Peretti inventò prodotti di massimo successo con forme primarie: fagiolo,  mela, lacrima, stella marina, àncora,  cuore, serpente a sonagli e scorpione. Tutto un immaginario mai appeso a orecchi e dita femminili.


Soprattutto introdusse l’argento che all’epoca era buono per le stoviglie ma considerato cheap da mettersi addosso. E disegnò questi pezzi molto moderni che sembravano usciti da Dalí, anche assai pratici, perché le donne non potevano, disse, uscire con un milione di dollari addosso. Arrivò così una specie di gioielleria prêt à porter e scalabile: il gioiello Tiffany anche oggi parte da 300 euro e arriva magari fino a 100 mila. “Oltretutto l’argento non lo rubano!” disse. “Neanche a casa”.


 

 

“A Roma aveva un appartamento arredato da Mongiardino, nel palazzo dell’Api, l’azienda petrolifera della famiglia, a Corso Italia, con vista su villa Borghese”, ricorda ancora Marina Cicogna. “Non si era mai sposata e non aveva mai avuto figli”: c’era stata una lunga relazione con un certo Stefano Magini, definito “camionista” o “muratore” in vari articoli.  “Contractor”, secondo il Washington Post. Repubblica del 30 ottobre 1997 lo definisce titolare di un’impresa edile a Porto Ercole, riportando una rissa tra il Magini e il cognato Aldo Brachetti Peretti, una scazzottata a piazza di Spagna, con denuncia nei confronti del cognato.

 

Con la famiglia del resto i rapporti erano sempre stati complicati: se n’era andata da Roma  e dalla dinastia affluente che la destinava a un ovvio destino borghese: il padre Nando Peretti aveva fondato la Api Petroli ancor oggi floridissima e passata agli eredi della di lei sorella Mila poi coniugata Brachetti, di lì la prosapia Brachetti-Peretti; con eredi che impalmeranno altezze serenissime, e tutto un epos romano elicotteristico-petrolifero molto Dynasty. Anche, dissapori, riconciliazioni, poi ancora liti, alla fine Elsa era stata liquidata e aveva messo i soldi in una grossa fondazione dedicata anche alla memoria del padre, la “Nando e Elsa Peretti Foundation”; “una roba seria, non di quelle fatte per pagare meno tasse”, disse. Che si occupava delle cause più disparate, dal salvare gli elefanti al salvare gli umani.

 

I soldi in questa storia non mancarono comunque mai: al rinnovo del contratto nel 2012, temendo che lei se ne andasse alla concorrenza,  Tiffany le diede 47 milioni di dollari cash, forse neanche tanti visto che la linea da lei disegnata valeva un decimo dei 3,6 billion del fatturato.  Ma i soldi, signora mia, rincorrono spesso chi li fugge. E lei in fuga dalla famiglia era finita ragazza a Gstaad a fare la maestra di sci e poi a Barcellona,  modella. Poi New York, e lì subito mondanità pazzesche e dissennate. C’è la foto vestita da coniglietta di Playboy nel 1975 in un’alba livida newyorchese, opera dell’allora fidanzato Helmut Newton. C’è Andy Warhol che prende scrupolosamente nota dei litigi e delle vodke buttate addosso a primari avventori dello Studio 54.

 

“Era stata molto bella e non si era curata più di tanto di conservare questa bellezza”, dice ancora Marina Cicogna. “Molto matta, molto piena di talento, era diversa dagli altri. Voleva essere indipendente. Ho visto cose assolutamente folli fatte da lei, ma mai niente di fasullo.  A un certo punto non poteva più viaggiare su aerei commerciali, perché aveva dato un po’ fuori di matto su tutte le linee aeree. Poi una sera a New York in un taxi con degli amici,  in una brusca frenata le cadde questa bustina di cocaina che si sparse per tutta la macchina, e lei se la prese col taxista, poi gliene offrì un po’, di sicuro non voleva che andasse buttata. E lì tutti a ravanare nel tappetino”. Certo altri tempi: oggi più che la cocaina sarebbe trasgressiva l’idea di uscire, figuriamoci ammassarsi in un taxi. E nessuno oserebbe neanche lontanamente sfiorare quel  tappetino: con tutti quei germi. 
 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).