Luigi Moretti, villa La Saracena, Santa Marinella. Foto di Giorgio Pasqualini per Open House Roma

I cigni di Moretti

Michele Masneri

Finalmente visitabile la Saracena. Storia e disavventure del più elegante architetto “fascista”, di una principessa, del sapone Camay, e di un restauro

Finalmente apre al pubblico un pezzo di storia del Novecento; in fondo al paese di Santa Marinella, a Capolinaro, ecco la Saracena, capolavoro balneare di Luigi Moretti, il più poetico dei razionalisti, uno dei pochi a cui la dicitura di architetto “fascista” possa attribuirsi in senso letterale. Un gran tamburone di calcestruzzo bianco accanto a una torre e un corpo di fabbrica che sembra un Brionvega anni Cinquanta, affacciato sul mare.

 

Parte di un trittico che comprende anche la Califfa e la Moresca, fu completata nel ’57 mentre Moretti costruiva il nuovo volto di Milano con gli edifici ciclopici di corso Italia. Ma qui si dedicò invece a mettere in crisi il concetto di stile mediterraneo, innestandovi un po’ di barocco e importando quanto basta di Le Corbusier in quella che era una specie di Copacabana dell’epoca. La villa fu fatta per Luciana Pignatelli d’Aragona, gran bellezza d’epoca, sorellastra di Rudi Crespi, figlia di un fascistissimo direttore del Messaggero, Malgeri, a cui Moretti aveva disegnato anche la tomba di famiglia al Verano. Lei poi diventa, oltre che principessa, anche testimonial del bagnoschiuma Camay e parente di Avedon, sposandone un cugino. Insomma, un cigno di Santa Marinella: presente pure al Ballo in Bianco e nero di Truman Capote nel 1966 e citata in “Fratelli d’Italia”. Per lei Moretti costruisce questo casone che Gio Ponti, l’unico tra i grandi che osasse lodarlo, descriveva così: “Volumi e spazi nell’estasi della luce del sole o lunare, nell’immensità del cielo e del prossimo mare”.

 

Moretti infatti ha una storia molto italiana: figlio di una serva e di un grande architetto che non lo riconoscerà (Rolland, progettista del teatro Adriano), diventa il più elegante degli archistar di Mussolini (Accademia della scherma al Foro italico, per dirne una). Pur essendo assolutamente fascista, però, fa un’architettura che non ha nulla della monumentalità di altri colleghi: è più lecorbuseriano, assomiglia più ad Alvar Aalto che all’acerrimo nemico Piacentini. Sarà anche uno dei pochissimi che non abiura, rimarrà fascistissimo fino alla fine, dunque si fa la galera a San Vittore, ma quella è un po’ la sua fortuna, perché lì conosce il conte Adolfo Fossataro, con cui mettono su una primaria società edile che poi costruirà il volto dell’Italia del Dopoguerra (Corso Italia a Milano e a Roma palazzina il Girasole a viale Bruno Buozzi, che sarà casa di Totò, per dirne due); poi, ancora, le meglio parti dell’Eur, e il Watergate a Washington (sì, quello lì) e molto altro.

 

Imprescindibile ma impresentabile, con l’aggravante del successo: così Moretti subisce la damnatio memoriae, espulso dai libri e dalle riviste del Dopoguerra. Di rivista però ne fonda una lui, “Spazio”, come l’omonima galleria che apre a Roma insieme a Michel Tapié. E dagli anni Cinquanta si dedica alla Saracena, che lo occuperà con annessi e connessi fino alla fine dei suoi giorni. “L’abbiamo comprata negli anni Ottanta, ma a lungo l’abbiamo tenuta come casa di vacanza”, mi dice Eleonora Cecconi, fortunata proprietaria che a un certo punto s’è decisa a mettere mano a un restauro filologico per riportare la casa alle origini. Grazie anche a una figlia giovane architetta che forse avrà scoperto su qualche manuale d’avere una villa al mare non proprio qualunque. Dopo i Pignatelli e prima dei Cecconi, la casa, biografia architettonica d’Italia, è appartenuta alla famiglia Marchini (costruttori romani storicamente a sinistra, facitori di Botteghe Oscure, poi Simona e Alfio, effimero candidato a sindaco). Dopo il nero e il rosso, la Saracena adesso è lì, bianca candida, coi pavimenti e i dettagli giallini e verdini voluti da Moretti, l’infilata di finestre a nastro più moderna di Porta Nuova, dettagli d’autore (le piattaie di formica celeste come la doccia di mosaico nel “grottone”, il tunnel che conduce al mare). Alcuni manufatti non erano restaurabili, così è stato sostituito per esempio il cancello-scultura che dalla grotta portava al mare, opera dell’artista americana Claire Falkenstein che Moretti aveva esposto da Spazio (lei poi diventerà una specie di firma del cancello d’autore, facendo anche quello di Peggy Guggenheim a Venezia).

 

La superficie della casa è la parte che ha richiesto i maggiori lavori, racconta al Foglio l’architetto Paolo Verdeschi, che ha diretto il restauro. “Gli intonaci che in origine erano stati applicati con una tecnica simile a quella pittorica, lasciando colare una miscela di polvere di marmo, cemento bianco e grassello, sono stati completamente ripuliti”. Come in una scultura classica “è saltato fuori anche un aspetto inedito, i molti colori utilizzati da Moretti, che successivamente erano stati ricoperti di bianco. A parte i bagni, e il pavimento del salone di quattro tonalità diverse di giallo, è emerso che l’intero piano seminterrato era rosa salmone, in quello che voleva essere una specie di ninfeo sotterraneo, in una ideale suddivisione per colore dei volumi e dei piani, com’è in altre opere dello stesso Moretti”. L’architetto-restauratore parla di folgorazione sentimentale, tanto che nel frattempo ha scritto pure un giallo ambientato nella villa. Santa Marinella del resto è un concentrato di memorie letterarie. E negli anni Cinquanta oltre che da Ingrid Bergman con Rossellini era frequentata anche da Bassani, che qui scrisse “Il giardino dei Finzi Contini”; chissà se si conoscevano e se si parlavano (Moretti aveva preso una torre in affitto da queste parti durante i lavori). Oggi la villa si può affittare, e tanti si sposeranno solo per avere una cerimonia morettiana; soprattutto, è entrata a far parte delle Dimore storiche del Lazio ed è visitabile talvolta con Openhouse Roma.

 

Quando morì, nel 1973, Bruno Zevi, che certo non lo amava, dovette ammettere che Moretti “possedeva un’autentica tempra di artista, integrata da una notevole e sistematica cultura e da una straordinaria capacità professionale”. “Avrebbe potuto assumere un ruolo determinante nella depressa atmosfera italiana”, scrive Zevi, “ma una volontà spasmodica di affermazione individuale, associata a un intellettualismo di marca dannunziana, ingordo di raffinatezze e di lusso, riportava la sua fantasia nei binari di un insopportabile conformismo; uno spreco in termini civili e umani, da cui non si riscattava mai completamente”. Vabbè, sembrano un po’ le critiche del tempo a Gadda, accusato di barocchismo. La principessa Pignatelli morì invece nel 2008, più amaramente, ingerendo un gran quantitativo di pasticche dopo che la crisi dei subprime le aveva incenerito i risparmi. “Come fate voi tutti a vivere, diventando vecchi, e soprattutto poveri?”, pare che abbia lasciato scritto.