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Alcuni nostri eroi sanno farsi perdonare tutto, anche una pubblicità per la Chrysler

Stefano Pistolini

Quanto è giusto essere tolleranti, quando si ascoltano e si osservano artisti che ci attirano, vuoi perché alle prime armi, o magari perché macilenti, vecchi, eppure ancora vivi? Quanta permissività e perdonismo è lecito?

Quanto è giusto essere tolleranti, quando si ascoltano e si osservano artisti che ci attirano, vuoi perché alle prime armi, o magari perché macilenti, vecchi, eppure ancora vivi? Quanta permissività e perdonismo è lecito? Quanto si dovrebbe essere inflessibili giudici? Poco, secondo me, anzi per niente, perché essere fan è più divertente che essere critici ed è anche più gioioso. Capricci, ghiribizzi, improbabili ritorni in scena, cambi di direzione: meglio dare spazio alla immaginazione degli altri, anche se a prima vista l’operazione è sgangherata. Sono i nostri eroi, le nostre figurine, le immagini sul nostro altare. Continuare a voler loro bene non è un lusso e una debolezza, è anche un modo per vivere meno soli. Prendiamo Dylan. Prendiamo quel folle (ma per noi, lo diciamo subito: adorabile) spot che ha fatto per la Chrysler, neo dépendance della nostra macchina di stato (chissà chi avrà proposto il nome “Dylan”). Prendiamo le facce che fa, il vestito che indossa, l’immaginifico nero corvino dei suoi capelli tinti che neanche Von Aschenbach nel finale di “Morte a Venezia”. Prendiamo la strafottenza irresistibile con cui recita il payoff: “I tedeschi sanno fare la birra, gli svizzeri gli orologi, noi costruiamo la tua macchina”. La faccia, la smorfia. La sfrontatezza – lui, che è divinità vivente, poeta laureato, eterno Nobel, nume tutelare etc – d’essere così sfacciatamente marchettaro. Che fare? Istruiamo il processo sulla corruttibilità di sua Bobbiness? Chiamiamo a testimoniare De Gregori? (teste a carico o a discolpa? Non so, non ho deciso). Oppure facciamo una smorfia di piacere, perfino di complicità, per questo cantante matto, più matto di quanto noi lo vorremmo “classico”, certamente più avido, o almeno eccelso calcolatore. Constatiamo che lui lo spot non l’ha fatto con la mano sinistra e l’aria schifata, chessò alla Scarlett Johansson che spinge SodaStream. Macché lui una volta incassato lo cheque, ci ha dato dentro, ha consentito l’uso della sua musica, ha giocato a stecca, ne ha fatto una faccenda di “american pride” diciamo di patriottismo. Accomodatevi, andatevelo a guardare. Fatemi sapere se tra voi e Dylan poi è tutto finito, o se il suo modo d’invecchiare, con questi detour, col farsi arrestare nel New Jersey perché lo prendono per un topo d’appartamento mentre lui invece voleva solo osservare un cortile (“sono Bob Dylan!”, disse al poliziotto e quello gli avrà risposto: “E io sono il generale Custer”) con questa fissazione, riferitaci da amici, di fabbricare cancelli di ferro artistici – mica con la manodopera cinese, no, lavorando lui di saldatore, almeno finché non si brucia troppo e allora molla l’arnese a un messicano. Oppure il suo modo prediletto di passare il tempo, non in piscina o in un ranch sterminato, m nel retrobottega di un bar poco raccomandabile di Los Angeles, in compagnia solo del suo manager, a parlare di quattrini, ingaggi, a programmare concerti, a scambiarsi pettegolezzi dell’ambiente, insomma restando vivo e restando se stesso, uno che s’è dato da fare, che tira la carretta da mezzo secolo, e che è sbagliato immaginarsi come un santo, un profeta, come l’approssimativamente vivente ricettacolo della grande canzone americana. Lu non smette: suona, canta, dipinge, fa cancelli, accumula quattrini. E quando la Chrysler gli fa un’offerta di quelle irrinunciabili, sapete che fa? Accetta. E lo spot per il Superbowl, per tutta l’America che ha spalancato la bocca a vederlo saltar fuori, lo fa magistrale. Noi, con reverenza, ci sfiliamo il berretto.

E all’improvviso la West Coast
Detto questo ce n’è un altro di vecchietto verso il quale la tolleranza è consigliabile. Si chiama David Crosby, la mente più raffinata di quel che fu il suono della West Coast, e certamente anche il più formidabile sperimentatore e ingoiatore di droghe che abbia battuto lo stato della California. Il suo primo disco solo, saggiamente intitolato “If I could only remember my name”, resta tra i nostri più amati in assoluto. Anche lui non ha mai smesso di fare la sua musica, almeno a intermittenza, tra una riabilitazione e l’altra, a margine dei bagordi. Questa volta si ripresenta da solo, senza i vecchi compañeros Nash, Stills etc etc, con un disco semplice e intimo, intitolato “Croz”, registrato nello studio casalingo del figlio, contando su comparsate illustri. E’ un piacere riascoltarlo, e ritrovarlo fuori dal tempo e dallo spazio – esattamente dove l’avevamo lasciato. Atmosfere fluidissime, rilassate, tante rimembranze di “Guinnevere”, la West Coast di colpo, là dietro l’angolo. Si assapora una ricongiunzione commovente, quasi un’epifania, mentre si ascolta questo 72enne sopravvissuto e contento. Sarà per motivi del genere che con questi signori ci sentiamo tolleranti.

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