L'unione eterogenea fa la forza, se si tratta di giovani imprenditori. Ma i ricavi sono ancora pochi

Elena Bonanni

    L’imprenditore degli anni Cinquanta aveva forte passione, studi legati all’avviamento professionale, una buona esperienza tecnico-pratica e si metteva in proprio dopo alcuni anni di lavoro in un’azienda leader del distretto. I nuovi imprenditori della generazione millennial, gli startupper, sono l’opposto: creativi con cultura universitaria, innovativi e visionari ma con scarsa esperienza, conoscenza del settore e del business model. Sono però consapevoli che la squadra fa la forza e nella maggior parte dei casi mettono in piedi team eterogenei e dalla provenienza diversificata. Tra le 4.704 start-up innovative italiane, che impiegano quasi cinquemila persone e hanno quasi 17 mila soci, il 45 per cento ha per esempio almeno una donna nel team, il 40 per cento almeno un under 35 e il 12 per cento almeno uno straniero. La fotografia è stata scattata da uno studio della Sda Bocconi, su dati InfoCamere, svolto in collaborazione con Bayer e con Caleido Group. La squadra è il tema più importante per valutare se un’idea innovativa avrà successo o meno. E i primi bilanci sembrano indicare che i migliori risultati si hanno quando al lavoro ci sono persone giovani con una forte cultura imprenditoriale piuttosto che persone più adulte con cultura manageriale e poca diversità.
    Per ora il sistema è comunque ancora in perdita. Lo studio della Bocconi, che ha analizzato un campione composto dalle start-up attive (2.865 imprese, il 61 per cento di quelle esistenti, tutte iscritte nella sezione speciale del registro delle imprese, escluse quelle in liquidazione) indica che in media i conti chiudono in negativo. Le imprese sono in grado di aumentare i ricavi progressivamente negli anni successivi alla loro nascita, stando sul mercato e aumentando le vendite. Tanto che i dati della Bocconi indicano in media un miglioramento da poche migliaia di ricavi nel primo anno di vita a quasi 250mila euro. Ma non riescono a raggiungere una redditività positiva. In altri termini, a fare utili. Il che significa che a stretto giro hanno sempre bisogno di nuove risorse, sia sul fronte del debito sia del capitale. 

     

    Se una start-up parte col piede giusto ci vuole però poco per rendersene conto. Uscendo dalla statistica dei dati medi, si scopre che le start-up che nello studio risultano in utile sono quelle che, già poco dopo la loro nascita, hanno una crescita bilanciata tra debito e capitale e indicatori di redditività positivi e stabili. Al contrario, le imprese in perdita, sono cresciute di più a livello dimensionale, richiedendo maggiore debito e maggiore capitale di rischio. Così al quarto anno si ritrovano con un patrimonio netto tre volte quello delle imprese in utile (300mila euro contro 100mila euro in media) e indebitamenti bancari a breve e lungo periodo di 2-2,5 volte (si tratta di livelli giudicati comunque ancora fisiologici).

     

     

    Stare sul mercato e migliorare

     

    Non sempre si tratta delle pecore nere della famiglia. Dietro può spesso trovarsi un potenziale futuro ancora inespresso. Le start-up in perdita hanno infatti un valore degli asset immateriali, i famosi “intangibili” o capitale intellettuale, che dopo cinque anni dalla nascita è decisamente maggiore, ossia tre volte tanto, quello delle start-up in utile. Allo stesso tempo, più riescono a stare sul mercato, più la loro redditività riesce a migliorare. Per molte, esprimere questo potenziale sembra essere questione di tempo. Ma il giovane imprenditore è capace di attendere?