LaPresse

L'analisi

Trofei, incassi, tornei portati a casa, potere assoluto. I segreti del tennis italiano

Alessandro Catapano

Come nascono i successi di una generazione, di una federazione, di un movimento? Dal talento di molti. I giocatori naturalmente. Ma anche da chi ha scommesso su questo sport. La forza di Binaghi, i numeri dei successi, le prossime puntate

Lui non perdona, non perdona e tocca. Se lo conosciamo un poco, ed effettivamente un poco ci abbiamo avuto a che fare, Francesco Guccini non rientra tra i suoi cantanti preferiti. E però, il Cirano dell’artista modenese, un manifesto contro l’ipocrisia, il conformismo, la superficialità della società contemporanea, sembra scritto apposta per questo ingegnere sardo sempre pronto a usare la spada. “Signori imbellettati, io più non vi sopporto…”.

 

Ecco, Angelo Binaghi, 65 anni da Cagliari, sopporta poche delle persone con cui, a vario titolo, è costretto a condividere l’esistenza. Corrispondono a quelle, le conosceremo più avanti, che ritiene all’altezza della sua intelligenza, capaci di andare alla sua velocità. Una velocità innanzitutto di pensiero, che spesso gli regala intuizioni felicissime, con cui in questi anni ha costruito le sue fortune da dirigente sportivo, che hanno fatto, gli va riconosciuto, anche la fortuna del movimento che rappresenta. Preso che era considerato un nobile decaduto, praticato da signori di mezza età che rimpiangevano i bei tempi andati dei gesti bianchi, espulso dai palinsesti tv, ignorato dai grandi giornali, frequentato in riva al Tevere più per il risvolto mondano che per lo spettacolo sportivo, venticinque anni dopo è clamorosamente lo sport più popolare del Paese. A ogni latitudine.

 

Da Torino, che ormai organizza edizioni delle Finals da far invidia a quelle londinesi, a Roma, dove gli Internazionali sono diventati così grandi che non è più un’eresia accostarli ai tornei dello Slam. Con un’audience tv (anche domenica, un boom) che sta per superare quella della Nazionale di calcio (invero, una delle più brutte e tristi di sempre), un numero di tesserati che ha definitivamente superato il milione (ma qui in gran quantità incidono, come spiegheremo più avanti, i bambini del progetto Racchette in classe, dove c’è un po’ di tutto, tennisti in erba ma anche chi a stento ha preso una racchetta in mano), un fatturato che, mal contati, quest’anno raggiungerà i 250 milioni di euro, cifra che, calcio a parte, è impensabile per qualunque altra federazione sportiva.

 

Causa o effetto di tutto questo (è un po’ come stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina), una generazione di tennisti fenomenali, mai vista prima per qualità e quantità. L’Italia tennistica chiude il 2025 con nove giocatori nei primi cento (ad un certo punto erano 11), cinque nei primi cinquanta, il numero 2 e il numero 8. Un elemento, su tutti, che descrive la cifra del tennis italiano: capitan Volandri ha vinto la terza Davis di fila senza i suoi due migliori giocatori (Sinner e Musetti) e lasciando a casa anche il quarto (Darderi, numero 26, che nel 2025 ha conquistato tre tornei Atp). Peccato, e ingiusto, che la Davis non metta in palio punti per il ranking mondiale, ma tranquilli, è la prossima battaglia di Binaghi. Il movimento porta a casa 24 titoli: Davis e BJKC per il secondo anno consecutivo (terza nazione di sempre dopo Usa e Australia), 12 tornei in singolare (11 maschili, tra cui due Slam, e 1 femminile), 10 in doppio (4 nel maschile, 4 nel femminile, 2 nel misto). L’anno scorso, ricordiamolo per completezza, l’Italia tennistica aveva agguantato anche un oro e un bronzo olimpici, quasi per inerzia (fosse stato per Binaghi, di cui è noto il disinteresse per qualunque manifestazione sportiva non porti soldi nelle sue tasche, ci avrebbe mandato un paio di ragazzini di Racchette in classe, giustappunto).

 

 

Sulle scelte che hanno prodotto questa generazione di fenomeni – al maschile, perché al femminile dopo la Paolini, che è riuscita a confermarsi nel 2025, chiudendo al numero 8, bisogna scendere fino all’83 (Cocciaretto) e addirittura al 104 (Bronzetti), il che dà alla doppia conquista della Billie Jean King Cup un’aura miracolosa (e ancora una volta, brava Tathiana Garbin) – si è detto e scritto molto in questi mesi, ricordando come sia stato decisivo, circa una quindicina di anni fa, ribaltare il paradigma che fino ad allora aveva guidato il settore tecnico federale: non più giocatori promettenti sradicati dal loro contesto e portati a intristirsi nei centri federali di Tirrenia e Formia, dove al momento di sbocciare tra i grandi puntualmente sfiorivano, ma personale federale – coach, preparatori, fisioterapisti, medici, mental coach – inviato a casa dei più talentuosi, a supporto del loro staff.

 

Questo cambio di paradigma ha coinciso con la nascita dell’Istituto superiore di formazione Roberto Lombardi, nel 2010, versione moderna e straordinariamente efficiente della Scuola Nazionale Maestri che fu per 70 anni. Il passaggio si è rivelato epocale: all’alba del sedicesimo anno di attività, la struttura oggi riveste un ruolo strategico e trasversale nella Federtennis, perché lavora su progettualità che vanno dall’attività di base all’alto livello. Multidisciplinarietà, talento, decentramento, pianificazione, formazione, internazionalizzazione, squadra, sono le parole chiave che hanno reso l’Istituto un modello nel mondo e per cui, ormai da qualche stagione, si parla di Sistema Italia. A capo di questa struttura c’è un uomo citato pochissimo: il pugliese Michelangelo Dell’Edera, ex maestro, direttore dell’Istituto, tema manager della Nazionale (fateci caso, è quello bassino in panchina che incita ed esulta più di tutti), da un paio d’anni anche vice segretario della Fitp. Un instancabile lavoratore, uno dei pretoriani di Binaghi, l’uomo cui il presidente ha affidato il controllo del territorio (e infatti torna utile anche quando bisogna assicurare alle assemblee federali, soprattutto le elettive, un congruo numero di votanti: l’astensione nel tennis non esiste). Dell’Edera è il Rocky della Federazione: grande incassatore (dell’invidia degli altri dirigenti, degli insulti di Binaghi che solitamente “allietano” i Consigli federali), non molla mai, e alla fine resta sempre in piedi, pronto a sferrare il cazzotto decisivo. Così porta a casa risorse, uomini, sostegno ai suoi progetti.

 

Altri, però, fanno parte del cerchio magico di Angelo Binaghi. Per scoprire chi sono e capire perché proprio loro, è utile scorrere preliminarmente la bio del presidente. Da bambino, orgoglioso raccattapalle (nel suo ufficio, c’è una grande foto in bianco e nero in cui si vede un ragazzino con la zazzera a bordo rete e sullo sfondo Nicola Pietrangeli in un match di Davis del 1968), in gioventù tennista niente più che onesto (qualche soddisfazione in doppio, in particolare nel misto, allora disciplina pionieristica), ingegnere per tradizione familiare (come il padre, Roberto, che fu anche assessore regionale ai lavori pubblici e fondatore del Tennis club Cagliari), giovanissimo dirigente sportivo. A 34 anni i primi passi nel circolo di famiglia, poi nel Comitato sardo, a 40 si ritrovò presidente della Federazione per una congiura dei quarantenni contro la generazione dei Galgani. Passò, come spesso succede in questi casi, perché nessuno gli dava credito: doveva gestire temporaneamente la situazione in attesa che i suoi elettori trovassero un candidato forte.

 

 

E probabilmente sarebbe andata così se di lì a poco manine amiche non gli avessero consegnato le carte che al termine di una battaglia legale decennale avrebbero inchiodato per truffa Adriano Panatta, allora consulente della Federazione, direttore e ras degli Internazionali. Con il bell’Adriano, dopo anni di guerra fredda, è scoppiata la pace: perdonato e insignito del titolo di maestro, senza il quale non avrebbe potuto lavorare nel bel circolo che la moglie gli ha tirato su a Treviso, ha improvvisamente smesso di scrivere e parlare male della Federazione (anche perché oggi farebbe un po’ fatica).

 

Da quei giorni di inizio Duemila, Binaghi si porta dietro l’amicizia e la preziosa collaborazione di due uomini: Massimo Verdina, ancora oggi il segretario generale della Fitp, il braccio destro che conosce vita, morte, miracoli e misfatti di tutti (innanzitutto del presidente), l’uomo che abilmente ha modificato lo Statuto federale per bloccare, di fatto, la candidatura di Corrado Barazzutti alle ultime elezioni; e Giancarlo Baccini, ex giornalista del Messaggero, ex capo ufficio stampa della Ferrari, l’inventore del canale tv Supertennis (case history unica al mondo, va riconosciuto), da più di vent’anni il più convinto pasdaran binaghiano (negli anni in cui i successi erano pochi e l’opposizione era tanta, conduceva a colpi di accrediti negati la battaglia con i giornalisti). Datata pure la cooptazione, nel cerchio magico, di Ernesto Albanese, conosciuto quando era direttore generale di Coni Servizi, la madre di Sport e Salute che nel 2007 salvò gli Internazionali che erano sull’orlo del fallimento con una joint venture con la Fit (allora senza la “p” del padel) che proprio in questi giorni è stata rinnovata, non senza momenti di scontro, per il prossimo quadriennio. Da allora, il manager napoletano è la prima persona cui Binaghi chiede un parere quando ciclicamente convoca quei gabinetti di guerra che devono decidere la strategia contro il nemico di turno. Più recente, invece, l’inserimento di Raffaele Pagnozzi, per anni segretario generale del Coni di Petrucci, battuto da Malagò nelle celebri elezioni del 2013, oggi uomo di raccordo con Sport e Salute e governo.

 

In rapida rassegna, i nemici giurati degli ultimi anni: Giovanni Malagò finché è stato presidente del Coni. I politici e i vip che vorrebbero vedere il tennis gratis (voi non ci crederete, ma Binaghi fa pagare pure i parenti). Sky quando si è presa tutti i diritti tv. L’Atp perché glieli ha concessi. La Rai finché non ha piazzato il tennis su Raiuno. Il Governo da quando ha deciso di mettere il naso nella governance delle Finals torinesi, e perché – lo ha rivelato lui stesso in questi giorni – qualche tempo fa non ha finanziato l’acquisto miliardario del torneo di Madrid, nelle intenzioni della Federazione il primo passo verso l’upgrade di Roma a torneo dello Slam (ma nelle ultime ore per Abodi solo parole al miele). Questi i nemici giurati degli ultimi anni. Perché i suoi più stretti collaboratori, innanzitutto, devono essere suoi soldati. Sempre pronti a sguainare la spada. Come il Cirano di Guccini. “Io non perdono, io non perdono e tocco…”. Il tennis italiano ha molti padri, padroni e padrini. Ma i successi di oggi dipendono dal talento di molti. I giocatori naturalmente. Ma anche chi ha scommesso sul tennis italiano, portando a casa tornei, coppe, successo, potere e trionfi.