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il foglio sportivo

Porcellato non sa stare senza bicicletta

Alessandro Catapano

Cinquantotto anni e quindici medaglie in dodici edizioni dei Giochi distribuite tra atletica, sci e ciclismo. Ma sull'ipotesi della tredicesima partecipazione alla competizione, l'atleta paralimpica è incerta: "se non avessi questa carta d’identità, pesante per la disciplina che faccio, continuerei a fare l’alto livello”

Come diceva Califano, non esclude il ritorno. “O come dico io, con la Porcellato non si sa mai”. La notizia, anzi le notizie sono due. La prima: la Rossa non ha smesso di volare, solo vola a quote più normali (qui, la diciamo alla Battiato). Nell’anno di vacanza che aveva annunciato si sarebbe presa, e che a questo punto farebbe meglio a definire sabbatico, en passant, ha vinto un paio di titoli italiani, in handbike of course.
La seconda, più che una notizia, è una riflessione. “Il 5 settembre di un anno fa, a Parigi, nel giorno del mio compleanno – racconta Francesca Porcellato, leggenda dello sport paralimpico, quindici medaglie in dodici edizioni dei Giochi distribuite tra atletica, sci e ciclismo – annunciai che non avrei più vestito la maglia azzurra. Non per la delusione del quarto posto, anzi. Anche se ancora oggi ritengo di essere stata scippata di quella e tante altre medaglie da un regolamento assurdo, che accorpa diversi livelli di disabilità. La gara, tutta in rimonta, in fondo aveva riassunto la mia vita: una corsa innanzitutto dalle avversità. Mi sembrava il momento giusto, a 54 anni, di dedicarmi ad altro. E l’ho fatto, ma senza staccare completamente, ho solo abbassato il livello e il numero degli allenamenti, perché ho capito che non so stare senza la bici”.
O non sa stare senza l’adrenalina della competizione? Los Angeles arriva tra tre anni, ha il tempo di rifletterci. “Ma pure il tempo di invecchiare ulteriormente, nel 2028 ne avrò 58, rischio di gareggiare con avversarie che potrebbero essere mie nipoti, non figlie”. Esagerata. “Sono sincera, se non avessi questa carta d’identità, pesante per la disciplina che faccio, continuerei a fare l’alto livello”. A Los Angeles, farebbe tredici, ma ci pensa? “Chi lo sa, vediamo. Io continuerò a gareggiare. Ma è innanzitutto una questione di testa, e la testa, prima che il fisico, mi dice che c’è anche altro da fare nella vita”. Quello che fa attualmente, membro del Cda della Fondazione Milano-Cortina e testimonial dei Giochi in arrivo, la inorgoglisce, certo, ma l’appagamento di uno sportivo è altra cosa. “Proseguo con la sincerità: provo un po’ di invidia per questi atleti che avranno la straordinaria possibilità di disputare una Paralimpiade a casa propria, con tutta la Nazione che tiferà per loro. Nel 2006, mi diedi allo sci proprio per disputare un’edizione dei Giochi in casa e nonostante il risultato, la ricordo ancora come un’esperienza unica”.
Nel riavvolgere il nastro, facciamo un po’ d’ordine. Dodici partecipazioni paralimpiche, da Seul 1988 (atletica) a Parigi 2024 (ciclismo), in mezzo la parentesi invernale. Come ci è riuscita? “Un’edizione alla volta. Feci la prima, senza sapere se sarei arrivata alla seconda. Passai a quella invernale e dopo Sochi, pensai: basta. Poi arrivò il ciclismo. Dopo Rio, credetti di nuovo di smettere. Ma Tokyo, in quel periodo così difficile, e dopo cinque anni, fu una grande sfida. Doveva essere l’ultima, ma sei mesi dopo ripresi ad allenarmi e Parigi era già dietro l’angolo. Come è cambiato il mondo paralimpico in questi trentasette anni? Più che cambiato, è stato rivoluzionato. Ricordo quando ci ritrovammo all’aeroporto, con le nostre carrozzine, in partenza per Seul: ci chiesero che santuario ci fosse. Adesso siamo personaggi noti, ci riconoscono e, soprattutto, ci considerano alla stregua degli atleti olimpici. Abbiamo fatto tanta cultura, abbiamo tirato fuori le persone di casa e abbiamo attirato interesse, sponsor, corpi militari. Con i nostri risultati, abbiamo stimolato le aziende a investire nello sviluppo degli attrezzi, e questo ha finito per cambiare anche la vita delle persone comuni. Una cosa non mi piace: eravamo più accessibili, ora siamo un po’ troppo star. Ricordiamoci che la nostra missione è sempre portare la propria disabilità nel mondo ed essere da faro per chi si è appena ritrovato disabile”. In questo lungo viaggio, tanti compagni, uno da menzionare. “L’imprenditore Tommaso Ghirardi, che mi ha sostenuto, economicamente e umanamente. E’ stato ed è il mio sponsor, di squadra (l’Active Team La Leonessa, di cui la Porcellato ha fatto parte fino a un paio d’anni fa) e personale. Nonostante arrivasse dal calcio, ha compreso subito il valore e il significato del mio impegno nello sport paralimpico, e oggi ne è un grande sostenitore”. Ultima: c’è un’altra Porcellato? “No, mi dispiace”. Anche a noi.

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