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sport americano
In America il college football non è più per tutti
L’esperienza live diventa un lusso: meno posti popolari, più suite e hospitality. Il tifo si trasforma in un prodotto per pochi, con un costo non solo economico ma culturale
Nel parcheggio del Doak Campbell Stadium, a Tallahassee, non arrivano più solo famiglie con panini fatti in casa e sedie pieghevoli. Arrivano, sempre più spesso, tifosi che si possono permettere weekend da mille dollari: booster fee moltiplicate, alberghi che nelle notti di partita raddoppiano o triplicano i prezzi, parcheggi e bottigliette d’acqua prezzati come beni di lusso. Quello che per decenni è stato il rito popolare del sabato, il college football come grande festa della middle class, sta diventando un’esperienza selettiva.
Florida State è un laboratorio perfetto di questa trasformazione. Per colmare il divario di ricavi con Sec e Big ten, l’ateneo ha investito centinaia di milioni in un restyling che ha ridotto la capienza del Doak Campbell di 12mila posti, convertendo gradinate economiche in club esclusivi, loge boxes e suite vendute a peso d’oro, con capital gifts da migliaia di dollari per mantenere il proprio posto “storico”. Meno sedili, più valore medio per sedile: l’economia biforcata, descritta da Jerome Powell, tradotta in cemento e plastica ignifuga.
La logica è semplice. I grandi atenei hanno nuove spese strutturali: dalla revenue sharing con i giocatori – oltre 20 milioni di dollari l’anno – alle buonuscite milionarie ai coach licenziati per mancanza di risultati. La risposta è cercare sempre più entrate dal pubblico pagante, soprattutto da quella piccola fascia di tifosi che può permettersi abbonamenti premium, lounge climatizzate, catering, parcheggi riservati. Gli altri vengono “accompagnati gentilmente all’uscita” dai prezzi: non per bando, ma per incompatibilità di reddito.
È una dinamica che non riguarda solo i college né solo gli Stati Uniti. Il calcio europeo sta seguendo la stessa traiettoria, con altri simboli ma gli stessi conti. Gli stadi nuovi o ristrutturati nascono con una grammatica identica: riduzione dei settori popolari, esplosione di skybox, aree hospitality, club business e biglietteria dinamica. L’obiettivo non è più massimizzare il numero di persone allo stadio, ma il valore economico di ciascun spettatore: meglio diecimila che pagano come trentamila, purché consumino anche nel pre partita e nell’intervallo.
Champions League, grandi classiche di campionato, il prossimo Mondiale 2026: ogni grande evento si sposta verso un pubblico globale, mobile, alto spendente, spesso più turista che tifoso. I club giustificano questa svolta con la parola chiave del nostro tempo, “sostenibilità”: bisogna reggere il peso di ingaggi, commissioni, ammortamenti degli stadi. Il modello americano offre una scorciatoia: comprimere la dimensione popolare del tifo per monetizzare il più possibile ogni posto a sedere.
Il rischio, da entrambe le parti dell’Atlantico, è che il prezzo da pagare non sia solo economico ma culturale. Quando famiglie che da decenni riempivano le stesse file di uno stadio universitario rinunciano all’abbonamento perché un weekend di partita equivale a una rata del mutuo, non scompaiono solo quattro o cinque biglietti: sparisce una parte di memoria collettiva, di trasmissione del tifo tra generazioni. Lo stesso vale per i bambini europei che vedranno la loro prima grande partita esclusivamente in streaming, perché il “loro” stadio è diventato un luogo inaccessibile.
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