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Il foglio sportivo

Come la formula Benetton riscrisse la storia della F1 

Umberto Zapelloni

Flavio Briatore, ora consulente esecutivo di Alpine, ci racconta l'epopea della scuderia capace di un titolo costruttori e due mondiali piloti: “Abbiamo portato colori, musica e modelle, ma soprattutto abbiamo vinto e aiutato pure la Ferrari”

Quarant’anni dopo lui è ancora lì, nella stessa squadra dove tutto cominciò. Flavio Briatore è passato dalla Benetton all’Alpine, transitando per la Renault, Billionaire, Crazy Pizza e mille altre cose tra le quali un figlio che ormai è più alto di lui. L’uscita del docufilm Benetton Formula, è l’occasione per un tuffo nel passato con un occhio sul futuro che per lui significa ancora Formula 1

 

Riavvolgiamo il nastro. Ricorda quando Luciano Benetton la chiamò per affidarle il team di Formula 1?

“Mi aveva chiamato solo perché mi occupassi della parte commerciale del team visto che avevo fatto bene in America per l’azienda. Vide in me la persona giusta e mi spedì in Inghilterra. E io non ero mai stato in Inghilterra”.

 

Se è per questo non aveva mai visto neppure un Gran premio di Formula 1.

“Avevo visto le qualifiche ad Adelaide con Luciano, ma una gara mai”.

 

E della Formula 1 che cosa sapeva?

“Che era una corsa di macchine, ma veramente non mi interessava molto. Vivevo in America dove si vedeva solo Jackie Stewart che era testimonial della Ford. Allora là la Formula 1 era un oggetto misterioso, non come ora”. 

 

Ha imparato in fretta.

“Quando sono arrivato in azienda ho capito che in squadra non c’era nessuno che voleva vincere. Mi sembrava andassero tutti a lavorare solo per lo stipendio. Non c’era ambizione, voglia di migliorare. Nessuno pensava che un giorno avremmo potuto diventare campioni del mondo”.

 

Come li ha cambiati?

“Ho detto a Luciano: se vuoi che me ne occupi devi darmi carta bianca, farmelo gestire come volevo. Avevo anche delle azioni del team”.

 

La prima cosa che ha fatto?

“Togliere la pressione finanziaria sulla Benetton e trovare degli sponsor. Prima non ci avevano pensato, facevano pagare tutto a Ponzano con un budget che ai tempi era di 10/12 milioni”.

 

Così arrivarono i tabaccai?

“Feci una corte spietata alla Marlboro, ma loro erano già impegnati con la Ferrari, allora lavorai con Camel che era in uscita dalla Lotus e convinsi il presidente”.

 

Cacciò quasi subito anche Peter Collins che era il direttore tecnico.

“Non ci volle molto, se io non capivo nulla di auto, lui non era meglio. Non so se vi ricordate ma aveva messo in macchina Johnny Herbert che poverino, dopo un incidente in F3, non si reggeva in piedi, viaggiava nei box con le stampelle. Mi sono detto: ma con tutti i piloti che hanno due gambe, perché dobbiamo averne uno con una sola?”.

 

A quel punto ha preso in mano lei tutta la situazione?

“Ho detto a Luciano: ‘Bisogna cambiare registro’ e così è stato”.

 

E con Alessandro che rapporto c’era?

“Ottimo. Lui studiava in America, ma ci seguiva ed è stato fondamentale per spiegare certe mosse a Ponzano e avere i finanziamenti che ci servivano”. 

 

Come e quando vi buttaste su Schumacher. Di chi fu la scelta?

“Avevamo già deciso di ingaggiare un giovane da far crescere con la squadra e avevo chiesto un parere a Peter Sauber. Schumacher era già sui nostri taccuini prima dell’esordio. Era uno dei tre piloti che mi aveva consigliato Peter Sauber che li faceva correre in Endurance per la Mercedes. Anche se a dire il vero lui preferiva Frentzen. Quando Schumi arrivò a Spa con la Jordan e fece quel che ha fatto, capimmo che era l’uomo giusto”.

 

Alessandro racconta di una telefonata tra voi due in cui decidete di non farvelo scappare.

“Gli ho detto: ‘Io penso al contratto, tu tieni a bada la famiglia’ perché sapevamo che saremmo finiti in tribunale, che se ne sarebbe parlato fuori dalle piste”.

 

Non fu una trattativa semplice.

“C’era stato tutto un casino a Monza con i garage sequestrati, le auto ferme. Luciano era in Giappone e mi chiama per dirmi: ‘Non è bello per il team, e poi chi è questo Schumacher?’”.

 

Che gli rispose?

“Noi dobbiamo trovare un pilota giovane che cresca con noi perché i top driver non ci cagano. Piquet era venuto a fine carriera, aveva fatto bene, ma avevamo bisogno di altro e Schumacher poteva essere l’uomo giusto”.

 

E lo fu.

“Dopo un anno aveva già vinto la prima gara. Poi arrivarono i Mondiali”.

 

Tre in due anni con due motori diversi, prima Ford poi Renault.

“Peccato che per avere i motori Renault mi sia dovuto comprare la Ligier perché Frank Wiliams non voleva che li dessero anche a noi”.

 

Si era inventato anche l’ingaggio a punti, un’invenzione in Formula 1?

“Per forza, i miei ingegneri non volevano Piquet. A noi serviva un campione del mondo. Lo convinsi ad accettare con un ingaggio legato alle prestazioni... Mi portò via un sacco di soldi”.

 

Qual era la dote principale di Michael invece?

“Beh, era eccezionale, come lui ne nasce uno ogni chissà quanti anni. Oggi c’è solo Verstappen che fa la differenza. Allora Michael faceva la differenza per come guidava, ma anche per come lavorava con la squadra”.

 

Se ne accorse anche Senna e cominciarono i primi litigi.

“Ayrton aveva capito che Michael avrebbe potuto portargli via la corona e cominciò a marcare il territorio. Ricordo quando a Hockenheim arrivarono quasi alle mani. Li portai con me sul motorhome e tenni per tutto il tempo una mano sul ginocchio di Michael, stringendoglielo quando stava per partire e rispondere a Senna. Doveva capire che il campione del mondo era Ayrton, ma un giorno lo sarebbe stato lui…”.

 

Ha più rivisto Michael dopo l’incidente?

“No, voglio ricordarmelo come era. Ancora l’altro giorno ho visto una foto in cui ha il cappello da cowboy, sorride e mi spruzza lo champagne. Io voglio ricordarmelo così”.

 

Non fu una passeggiata quel Mondiale, perché tra squalifiche e accuse avete dovuto vincere anche fuori dalla pista?

“Mosley aveva una teoria che se Benetton vinceva il Mondiale di Formula 1 faceva male a tutto il movimento. Chi faceva magliette non poteva battere i team storici. Noi andavamo bene per lo spettacolo, ma non voleva che vincessimo”.

 

Ci fu anche la famosa battuta di Agnelli: “Non capisco come facciano questi che fabbricano magliette a batterci”.

“Agnelli la disse quando era senatore con Luciano Benetton. Ma poi io lo feci arrabbiare per tre mesi”.

 

Racconti.

“Quando mi chiedevano come si poteva far vincere la Ferrari, io rispondevo, basta colorare di rosso una Benetton”.

 

Oppure ingaggiare mezza squadra da Schumacher in giù.

“Presero una decina di persone da Michael al capo meccanico. Ma se Michael non fosse andato subito…”.

 

Che sarebbe successo?

“Avrebbe vinto altri due Mondiali con noi. Ci ha messo quattro cinque anni a vincere con la Ferrari”.

 

Ma la Ferrari ha mai cercato Briatore?

“Una volta ai tempi di Umberto Agnelli, ma io ero anche socio. E poi devo tutto a Luciano. So essere riconoscente”.

 

Dopo qualche anno la Benetton fu acquistata dalla Renault.

“E continuammo a vincere. Stesso disegno solo che al posto di Michael c’era Fernando”.

 

Quella volta ci fu il Singapore gate.

“E ancora una volta Mosley cercò di farmi fuori con una giustizia sportiva tarocca. A Max stavo sulle scatole dal primo giorno che sono arrivato. Io però poi li ho portati in tribunale e per le cose per cui loro mi avevano radiato, ho vinto e sono tornato. Oggi sono nella stessa posizione in cui ero quando fui squalificato”.

 

Ma con l’Alpine non va benissimo.

“Quest’anno non aveva senso investire. L’anno prossimo avremo i motori Mercedes… Ricordatevi dove era la McLaren tre anni fa. Esattamente dove siamo noi adesso”.

 

Possiamo dire che la Benetton ha anticipato la Formula 1 introducendo anni prima lo show?

“È esattamente quanto abbiamo fatto rendendo popolare uno sport per ingegneri con musica, colori, modelle. Però abbiamo anche vinto, altrimenti non sarebbe servito a nulla”.

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