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Tutti i Sinner del mondo. Non commuove più la squadra, ma l'individuo che si batte eroicamente
Grazie al libro "Open", Andre Agassi risvegliò l’interesse attorno a uno sport così straordinariamente e radicalmente individualista da porsi agli opposti estremi del rugby, ma anche di relazione sempre rispettosa con l’avversario. Autobiografie tennistiche, che passione
Prima ancora dell’avvento di Jannik Sinner, e quindi prima che gli italiani si accorgessero – o si ricordassero dai tempi di Adriano Panatta – dell’esistenza del tennis non solo come sport per allungarsi per ore sul divano la sera o la domenica, ma come epica e mitologia, fu Andre Agassi con la sua straordinaria biografia Open (scritta da quel grande perlustratore di vite altrui, ovvero ghostwriter, che è J. R. Moehringer, già Premio Pulitzer nel 2000) a risvegliare l’interesse attorno ad uno sport così straordinariamente e radicalmente individualista da porsi agli opposti estremi del rugby, ma anche di relazione sempre rispettosa con l’avversario. Open arriva in Italia nel 2011 grazie all’intuito di Stile Libero (Einaudi), quindi per merito di Paolo Repetti e del mai dimenticato Severino Cesari. All’inizio non sembra destare troppo interesse, supera anzi senza particolari grandi vendite le fatidiche prime settimane, quelle che permettono a un libro di vivere o meno in libreria. Forse la mole di oltre cinquecento pagine non aiuta, nonostante la brillante traduzione di Giuliana Lupi. E forse proprio le cinquecento e passa pagine necessitano di quel tempo di lettura utile a maturare un sincero entusiasmo e non una banale marchetta stile fascetta da copertina.
“Open” di Andre Agassi divenne subito un long seller, le sue vendite furono straordinarie e oggi tengono la biografia costantemente in classifica
Partì così la grancassa guidata da Alessandro Baricco e poi da Lorenzo Jovanotti, influencer in un tempo già social, ma dal campo ancora sgombro da consigli tutt’altro che disinteressati. Open divenne subito un long seller, le sue vendite furono straordinarie e oggi, anche per merito del fenomeno Sinner, tengono la biografia costantemente in classifica. Un classico contemporaneo che avrebbe proiettato il pubblico italiano a interessarsi a un nuovo sport forse in pianta stabile, con una consapevolezza che nemmeno la pallavolo dei tempi di Julio Velasco (tempi mai conclusi visti i trionfi con la nazionale femminile) sembra aver prodotto. Già, perché in un’epoca in cui la nazionale di calcio è ridotta ai minimi termini e, come una provinciale senza anima, si gioca al meglio che si può con nazionali di quart’ordine, ecco che l’ultima possibilità per gli italiani di fare squadra sembra essersi giocata per sempre e allora evviva il tennis, l’individuo liberista che da solo batte il mondo, l’invidia e pure il fisco, scegliendo Montecarlo e i soldi arabi. Tutti si scandalizzano pubblicamente, ma, privatamente, tutti farebbero allo stesso modo. Mai porre limiti all’individuo, e in particolare all’italiano medio quando si mette a sognare. E se i libri di Adriano Panatta hanno avuto una buona accoglienza, ma mai in maniera così diffusa – forse perché Panatta, da vero performer, è in grado di dire più con uno sguardo e con un’alzata di spalla che in una pagina scritta – ecco che il tennis diventa, in ogni caso, campo di conquista per gli editori.
Primo tra i primi Domenico Procacci, editore di Fandango, che rilancia in grande stile la rivista Il tennis italiano (il cui payoff: “La più antica rivista di tennis del mondo” fa subito romanità a mille), tra i collaboratori annovera i maggiori scrittori e giornalisti sportivi e poi pensa anche a un podcast (se ne può fare a meno oggi?) che coinvolge la vera coppia Reale italiana: i sempiterni Adriano Panatta e Paolo Bertolucci che con “La telefonata” sbancano Spotify. Seguono ovviamente innumerevoli biografie di Jannik Sinner e tutti diventano così esperti (come sempre accade) di dritto, rovescio, smash, dropshot e demi volée. A fianco al fenomeno Sinner, si procede senza tregua a stampare le biografie dei suoi avversari. Il primo, il più grande di sempre – a livello statistico, perché a livello sentimentale e intellettuale trionfa di gran lunga nel ceto medio riflessivo Roger Federer – è quel cattivo ragazzo di 38 anni, ovvero Novak Djokovic detto “Nole”, ma anche detto “Joker” e “The Serbinator” (ancora ho davanti agli occhi un’amica che mi disse: “Non sai quanto è bello sentire quell’accento slavo”) e infine, per restare umile, anche autonominatosi Goat: Greatest Of All Time. Su di lui si contano almeno due biografie notevoli (quella di Mark Hodgkinson e quella di Giancarlo Liviano d’Arcangelo) per non parlare dei volumi, una vera e propria enciclopedia dedicata ai Fab four, che oltre a Djokovic comprendono ovviamente Federer, Nadal e il troppo spesso dimenticato Andy Murray. Naturalmente c’è spazio anche per Carlos Alcaraz, il campione di Murcia che, se tutto va bene, accompagnerà negli anni la carriera di Sinner finale dopo finale. Per lui è ancora l’infaticabile Mark Hodgkinson a dettare la linea.
Sulla vita del più grande di sempre, Novak Djokovic, ci sono almeno due volumi notevoli. E una vera e propria enciclopedia dedicata ai Fab four
In questo panorama fatto di libri sul tennis che vanno dalle biografie alla tecnica, dalla salute all’auto aiuto fino al complottismo tra doping e poteri forti (chissà se Sinner fa parte del Gruppo Bilderberg) spicca la notevole biografia di Roberto Palpacelli scritta con Federico Ferrero (Rizzoli): Il Palpa, dal soprannome del suo protagonista, è un vero romanzo di formazione, in cui però nessuno ha veramente voglia di mettere la testa a posto. Epico nella sua caduta ed eroico in quella straordinarietà che anticipa la grandezza senza mai coglierla, ma la cova dentro di sé come una certezza. Palpacelli – nome che pare quello di un Papa – fu il più grande di tutti, anche perché non si degnò mai per davvero di dimostrarlo a tutti gli altri. Imbattibile e tragico, eroico e disgraziato, e in fondo per nulla lontano esistenzialmente da due campioni come Björn Borg e Boris Becker, che hanno segnato due epoche diverse eppure dal percorso parallelo. Due uomini capaci di grandi trionfi come di improvvise cadute. Se Björn Borg incarna totalmente gli anni Settanta, non di meno Boris Becker è l’interprete migliore degli anni Ottanta.
Entrambi ritiratisi giovanissimi, a ventisette anni Borg, a trentadue Becker – ma già a mezzo servizio da qualche anno – sembrano aver esaurito la loro carica sportiva con l’esaurirsi del decennio di appartenenza, tanto che tutto quello che è venuto dopo ha assunto il tono di una lunga e a tratti terribile caduta, e ora l’uscita quasi contemporanea delle loro due autobiografie certifica più che una rinascita, una salvezza. La palla ha finalmente smesso di rotolare, la caduta è terminata, ma di certo nulla per loro è rimasto, fino ad oggi, nell’alveo dell’ordinario. Tanto che se Borg apre la sua Battiti (Rizzoli, traduzione di Ilaria Baldini) con un collasso, Becker apre Inside (Mondadori, traduzione di Michele Piumini, Alessandro Vezzoli) direttamente dalla galera. Al punto che entrambi appaiono più che altro compagni di sventura, visto che sui campi da gioco non si sono mai incrociati per davvero, di sicuro sono grandi amici, viste anche le vacanze che trascorrono insieme da anni a Ibiza con le rispettive famiglie. C’è un tempo per avere degli avversari e un tempo per avere degli amici, e loro sembrano averlo finalmente capito.
Se Björn Borg incarna gli anni 70, Boris Becker è il miglior interprete degli 80. Le due autobiografie escono quasi in contemporanea
Borg è figlio della socialdemocratica Svezia, figlio unico di una famiglia di figli unici, un nucleo a tre straordinariamente coeso che per tutta la vita Borg cercherà di ricreare, riuscendoci solo in parte tra relazioni turbolente e matrimoni falliti. Il più famoso quello con Loredana Berté, presentatagli proprio dal di lei compagno di allora, Adriano Panatta, che in quell’occasione vinse per l’ennesima volta contro Borg (Panatta era la bestia nera del campione svedese). Il matrimonio fu più pubblico che privato e finì sulle pagine delle cronache scandalistiche svedesi e italiane. In quel caos Borg ci mise del proprio, da troppo tempo assuefatto all’uso spasmodico di sonniferi e chimica varia aveva forse perso quella sicurezza di sé che sembrava avere fin da bambino: “La grande solidarietà che si respirava in famiglia forse può sembrare insolita, ma devo dire che ho sempre avuto una mia sicurezza interiore, e credo che questa sensazione derivi proprio dal legame profondo che ci univa. Era il papà il pilastro”, praticamente l’opposto di quella che fu l’esperienza di Agassi, che ebbe un padre violento e punitivo.
Borg cresce infatti seguendo il padre giocando a ping pong e proprio a un torneo di ping pong il Borg senior vince una racchetta da tennis che subito finisce tra le mani del figlio: “La racchetta vinta da mio padre era troppo pesante per me, così ero costretto a usarla con entrambe le mani, sia per diritti sia per i rovesci. Di conseguenza, sviluppai fin da subito uno stile di gioco molto particolare”. Per quanto Björn Borg rappresenti il primo grande tennista moderno al pari di Johan Cruyff e di Niki Lauda nei rispettivi sport (tutti nordici, il che qualcosa dovrebbe dirci del cosiddetto eclettismo mediterraneo che spesso è solo conformismo), non si può non vedere come tutto nascesse non tanto per caso, ma per intuito, sulla base di una tensione che indirizzava i campioni verso determinati movimenti, posture e visioni estremamente particolari e personali, prima ancora che fosse la tecnica fatta di analisi e ricerche, studi e modelli, a coglierne i vantaggi e le opportunità. Una modalità che nasceva dall’ascolto profondo di sé e del proprio corpo e che però non derivava da un’urgenza competitiva, ma da uno stare al mondo dentro al quale tutti gli aspetti restavano sempre fortemente connessi. Tanto più in un’epoca esplosiva e liberatoria come gli anni Settanta, durante i quali fare l’atleta doveva essere non solo estremamente faticoso, ma anche complicato.
Per Borg il passato è un tempo ormai concluso, Becker è ancora un uomo in lotta, spaventato da come il mondo lo abbia attraversato
Per la prima volta gli sportivi diventavano figure pubbliche, raccontate non solo sui giornali del giorno dopo, ma viste in diretta in televisione. Miti in vita ed eroi seducenti e al tempo stesso facilmente sedotti da un mondo dello spettacolo sempre più pervasivo e ammaliante – ne sa qualcosa Adriano Panatta, più volte costretto a una disciplina faticosissima dopo notti passate a inseguire amici come Paolo Villaggio e Ugo Tognazzi. Da questo punto di vista Borg sembra meno permeabile, anzi riduce da subito tutto il suo mondo al campo da gioco con un’idea fortemente contemporanea dello sport dentro cui stabilire gli spazi per sé e per i fan. Borg capisce da subito che il suo è un ruolo pubblico: “Era indispensabile che noi giocatori sviluppassimo una nostra personalità e uno stile di gioco riconoscibile, in modo che i fan potessero scegliere i loro beniamini”, ma al tempo stesso avverte questa pressione, e qualcosa inizia a incrinarsi anche sul campo da gioco, l’unico posto in cui si sentiva veramente al sicuro: “Ai miei tempi si veniva gettati in pasto ai lupi e bisognava imparare a cavarsela da soli”. Perché allora non era previsto, come oggi, uno staff capace non solo di controllare, ma soprattutto di difendere il proprio campione al pari di una star mondiale.
E a cavarsela Boris Becker proprio non c’è riuscito, tutto potenza e velocità, giovinezza e sicurezza ostentata, Il tedesco trionfa a Wimbledon a soli diciassette anni, età in cui molti tennisti ancora tentano di capire non se saranno dei campioni, ma quantomeno se saranno promossi alla maturità. Becker fa tutto subito, come quella Germania che non vede l’ora di picconare quel maledetto muro e tornare unita, e non a caso vincerà per la terza volta e ultima volta il torneo di Wimbledon proprio nel 1989. Un fenomeno che in pochi anni azzera ogni avversario, ma che in pochi anni azzera anche il proprio patrimonio con scelte sbagliate, forse dettate da arroganza e infantilismo. Un personaggio pienamente dickensiano partito nella gloria e finito nella polvere di una galera: “Quel pomeriggio, quando mi rinchiusero, provai a trasformare la solitudine e le ore vuote in qualcos’altro. Avrei sfruttato quei momenti per riflettere. Per capire cosa avevo sbagliato e cosa avevo fatto bene”. Più che bene aveva vissuto anni impossibili, assurdi, vincenti e potenti. Becker era stato il centro del mondo e ora era un uomo solo, ma mai dimenticabile, anche e soprattutto per i suoi errori e per i suoi inciampi.
Inside è una biografia vibrante che si concede, a differenza di Battiti di Borg, un classico inserto fotografico molto celebrativo, ma poi concentra la narrazione soprattutto su quanto c’è stato di sbagliato nella sua vita. Lo sport è relegato a una cronaca, a una cosa ovvia, in fondo, per uno che l’ha vissuto naturalmente come Becker. Si percepisce in Inside un dolore vivo difficile da rimarginare, così come in Borg non si avverte freddezza perché, esattamente come avveniva sui campi da tennis, il gioco prevaleva sulla sua emotività. Ci sono in lui una misura, una parsimonia e un pudore che precedono la vergogna: per Borg il passato ha una forma esatta, un tempo chiuso e concluso. Del resto il ritorno sui campi da tennis negli anni Novanta non è per lui che un modo per rimettere in sesto la sua vita, più che per riaprire la sua carriera: “Il mio comeback si riferiva alla vita: avevo vinto la mia partita interiore”.
Una calma interiore che invece in Boris Becker non ha ancora fatto breccia. Il campione tedesco ha ancora il fiato grosso tipico della paura, di un bisogno estremo di tranquillità. Se per Borg il peggio è passato e davanti a sé ha la conquista di una vecchiaia che non si vergogna a definire tale, Becker vince ancora come un uomo in lotta, stupito da come siano andate le cose e spaventato da come il mondo lo abbia attraversato, gli abbia dato e poi tolto praticamente tutto. In fondo non c’è troppa differenza tra il gesto di ricoprire d’oro uno sportivo o un artista e quello di gettarlo nella polvere con una manciata di ricordi utili solo per farsi ancora più male: “A volte, però, quando mi guardavo allo specchio e vedevo quest’uomo più vicino ai sessanta che ai cinquanta, con i capelli rasati e intorno agli occhi delle rughe che prima non c’erano, pensavo: posso essere il tuo migliore amico e il tuo peggiore nemico”.
Entrambi, alla fine, hanno scelto di vivere un presente certamente più faticoso dei fasti e dei successi passati, ma almeno reale. Di quel che è stato hanno saputo costruire una storia buona per loro e per i loro fan, e già questo non è poca cosa. Altro che Wimbledon o Roland Garros, a pensare invece che sera, stasera, mentre si abbracciano invecchiati e pieni di magagne in un ristorante di Ibiza senza troppe pretese.
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