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Il foglio sportivo

I soldi stravolgono lo sport Ncaa

Roberto Gotta

La possibilità di fare contratti ha trasformato basket e football al college. Un mondo che si fondava sul dilettantismo è diventato un mondo in cui si può cambiare squadra ogni anno e per denaro, scegliendo quindi il college il cui consorzio ti offre di più

Nel 2021 furono 363 i giocatori che si candidarono al draft Nba pur non avendo ancora concluso l’università o non avendola mai fatta, in quanto stranieri. Nel 2025 il numero è sceso a 106, di cui, tra ritiri e ripensamenti, gli ex universitari erano solo 32. Cosa è successo, l’Nba non attira più come una volta? Macché: la risposta è sempre quella, soldi. Che nell’ultimo quinquennio hanno cambiato in maniera sconvolgente il panorama dello sport di college, rendendolo un ibrido che piace a molti media, molti tifosi e moltissimi giocatori, ma che lo ha snaturato in ogni suo aspetto.

 

Lo schema, da decenni, era il medesimo: per le tue doti sportive un’università ti dà una borsa di studio, del valore anche oltre i centomila dollari, e tu in cambio della possibilità di una istruzione di alto livello la rappresenti scendendo in campo. Un do ut des lineare e persino democratico, perché ha consentito a milioni di ragazzi, che altrimenti il college non l’avrebbero nemmeno potuto sognare, di accedere a una laurea, anche se il bilancio non era mai equo: a fronte di quella concessione, i college e l’organismo che li governa sul piano sportivo, la Ncaa, hanno guadagnato letteralmente miliardi di dollari dai diritti televisivi per le partite di basket e soprattutto football. E proprio per questo il sistema è stato periodicamente sottoposto ad attacchi: per il (presunto) sfruttamento, per l’ipocrisia ad esempio nella definizione dei giocatori come ‘student-athletes’ quando sono soprattutto atleti, per le mille complessità e magagne che qui sarebbe troppo lungo elencare, ma che non andavano a scalfire la base, la roccia su cui tutto era fondato, ovvero borsa di studio e opportunità di crearsi una carriera sportiva o lavorativa in cambio delle prestazioni agonistiche.

 

Dal 2021 però è cambiato tutto: in quell’anno infatti la Corte Suprema ha autorizzato i giocatori a ricevere un compenso per diritti di immagine, i Nil (name, image, likeness), una decisione forse nata sull’onda lunga della causa intentata già nel 2009 alla Ncaa da Ed O’Bannon, giocatore di basket (anche a Trieste, 1998), per il mancato pagamento agli atleti, una volta usciti dal college e dunque dal presunto dilettantismo, proprio di quei diritti, ad esempio per i videogiochi. Immediatamente dopo la sentenza sono sorti consorzi (collectives) legati ai college, anche se da loro formalmente indipendenti, che hanno creato opportunità pubblicitarie per i giocatori: di questi organismi hanno subito fatto parte i cosiddetti boosters, cioé imprenditori di successo che tradizionalmente, con le loro donazioni, avevano sovvenzionato le sezioni sportive degli atenei di cui un tempo erano stati studenti ma che avevano spesso contribuito alla cattiva fama del sistema. Sono infinite, e spesso tra il bizzarro e il grottesco, le storie sui metodi con cui molti booster oltre ai finanziamenti ufficiali (e detrabili dalle tasse) aiutavano i giocatori: dall’assunzione fittizia per lavori estivi mai svolti ma retribuiti corposamente, alla visita in spogliatoio dopo la partita con consegna agli atleti di accappatoi per la doccia nelle cui tasche c’era la busta con centinaia di dollari di ‘mancia’, e così via. Con i contratti Nil tutto è stato regolarizzato ma in alcuni casi la situazione è sfuggita al controllo, anche per via di un’altra innovazione a cui di fatto la Ncaa è stata costretta, ovvero l’introduzione di un portale online con il quale i giocatori possono chiedere di cambiare università e di fatto mettersi sul mercato.

 

È chiaro il motivo per cui si può tranquillamente parlare di stravolgimento, di cambiamento epocale: un mondo che si fondava sul dilettantismo, sul fatto che un allenatore, una volta convinto un atleta ad accettare la borsa di studio, potesse contare su di lui per l’intero quadrienno di studi, è diventato un mondo in cui si può cambiare squadra ogni anno e per soldi, scegliendo quindi il college il cui consorzio ti offre di più. A quel punto, ovviamente, l’unica differenza con il professionismo puro è che dopo un po’ dall’università sei costretto a uscire per scadenza dei termini agonistici, ma per il resto se non sei candidato a essere scelto nelle prime posizioni del draft e dunque ad avere subito un bel contratto ti conviene restare al college e guadagnare ancora di più, specialmente se – come accade – puoi decidere dove giocare. Se uno come Rick Pitino, coach di St. John’s, dice apertamente di non voler nemmeno più puntare sui giocatori appena usciti dal liceo, preferendo riempire la rosa con atleti già formati da altri college (o club stranieri, il presidente Fip Gianni Petrucci di recente alla Politica nel pallone su RadioRai ha detto “anche molti giovani italiani sono andati a giocare nelle università americane, credo che possa essere una grande esperienza e fare bene anche alla nostra Nazionale”), allora è evidente che le vecchie regole non valgono più. Ancor più dal primo luglio di quest’anno, quando dopo l’ennesima causa intentata alla Ncaa la Corte ha deciso che d’ora in poi saranno i college stessi a poter pagare gli atleti per un massimo di 20,5 milioni (per il primo anno), mentre restano validi i consorzi, ma in teoria qualsiasi contratto pubblicitario superiore ai 600 dollari dovrà ora essere segnalato per una verifica, peraltro improbabile visto che l’apposito ufficio dovrebbe esaminare e approvare decine di migliaia di contratti.

 

Si aprono però altri problemi: a portare soldi dei diritti televisivi sono quasi solo il football e il basket (maschile e femminile) e logica vorrebbe che quei 20,5 milioni andassero ai componenti delle relative squadre, ma in quel caso si potrebbero aprire complicazioni legali per discriminazione. Resta lo sconvolgimento, evidenziato anche dalla accresciuta competitività tra college e dall’assoluta esigenza del risultato sportivo, mai stato importante come ora. Lo testimonia il fatto che a trequarti di stagione del college football sono già stati licenziati cinque coach di grido. A loro andrà un totale di 169 milioni di dollari di buonuscita, una somma che i rispettivi college sono disposti a spendere pur di trovare, disperatamente, qualcuno che possa migliorare il risultato sportivo, far apparire più desiderabile la squadra sul ‘mercato’ e portare a ulteriori introiti. I soldi, come sempre.

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