Giovanni Galeone (foto LaPresse)
1941-2025
È morto Giovanni Galeone
Per oltre trent'anni ha portato in giro per la provincia calcistica italiana quel modo universalista di giocare, un po' mediterraneo un po' mitteleuropeo, facendo innamorare più i tifosi che i presidenti
Il calcio italiano è materia complessa nella quale, spesso, si sono contrapposti allenatori antipatici ai più e vincenti e allenatori simpatici ai più e perdenti, o meglio non vincenti. L’indole italiana, almeno quella degli appassionati del pallone, difficilmente può unire simpatia condivisa alle vittorie, perché chi vince in qualche modo attira le antipatie di tutti quegli che non possono gioire per le vittorie in campo.
Tra i non vincenti simpatici, a lungo, ha trovato dimora Giovanni Galeone. Perché Giovanni Galeone era allenatore strano, a volte strambo per concezione del calcio e modi di fare, animato da una sincerità spigolosa e una fedeltà ancor più spigolosa verso il proprio credo (non solo) calcistico.
Giovanni Galeone ha vagato per un trentennio nella provincia calcistica, quella che non vince mai, accumulando promozioni spettacolari, qualche salvezza incredibile, esoneri, interviste stralunate, mantenendosi fedele sempre a un calcio divertente, strafottente, animato da un teorema irrinunciabile: una partita la si vince segnando un gol il più dell’avversario. Le squadre di Giovanni Galeone attaccavano sempre, cercavano di vincere sempre, pensavano al gol da fare non a quello da evitare.
Uno così non poteva non piacere. Anche perché quando parlava era capace di convincerti che così e solo così il calcio diventava bello, si trasformava in uno spettacolo. Forse anche per questo che alla notizia della sua morte, avvenuta domenica 2 novembre, si è percepito, almeno tra chi ha avuto modo di seguire almeno un pezzetto del suo passaggio attraverso il calcio, una sincera e malinconica sensazione di mancanza.
Aveva parlantina e cervello fine, Giovanni Galeone. Bocca e testa allenati dai buoni libri, da una curiosità verso l’umano tutto, non solo calcistica. Era uno fuori tempo massimo, proprio per questo modernissimo. Uno buono per quei decenni che anticiparono la Prima guerra mondiale, uno capace di unire come pochi, forse nessuno nel mondo del calcio, la cultura mediterranea e quella mitteleuropea.
Giovanni Galeone era figlio della Napoli borghese e colta, che ha saputo diventare figlio anche della Trieste che negli anni Cinquanta ha iniziato a superare il ricordo imperiale per abbracciare un’italianità particolare, ancora animata da una spinta verso la Mitteleuropa.
Questa spinta Giovanni Galeone la conservò nelle letture, nelle parole, soprattutto la disegnò nei campi da calcio una volta abbandonata la carriera calcistica e iniziata quella da allenatore. Perché tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta nessuna squadra giocava come quelle di Giovanni Galeone, perché nessun allenatore in quegli anni aveva portato oltre cortina ciò accadeva negli stadi del blocco comunista. Giovanni Galeone quelle partite le vedeva su Rete Capo d’Istria e quelle partite “stimolarono la mia curiosità, mi imposero un pensiero universalista, quello che poi era alla base del calcio danubiano, quello della Grande Austria e della Grande Ungheria”.
Giovanni Galeone continuò per trent’anni a portare in giro per la provincia italiana quel modo universalista di giocare. Con alterne fortune, facendo innamorare più i tifosi che i presidenti, incappando in molte delusioni sul campo e molte soddisfazioni fuori dal campo. Perché ovunque tornava, Giovanni Galeone era accolto da un affetto strampalato, molto più intenso di quello che si sarebbe potuto immaginare. Un affetto durato oltre la naturale scadenza calcistica.
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