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Il nuovo dominus dello sport italiano

Alessandro Catapano

Presidenti federali, enti di promozione sportiva, discipline associate: tutti, chi più chi meno, dipendono da lui. Perché nessuno può fare a meno dei soldi pubblici ed è lui, Diego Nepi Molineris, che taglia le fette della torta, che ormai vale mezzo miliardo

Due anni fa, nei giorni concitati che precedettero la sua nomina ad amministratore delegato di Sport e Salute, i pranzi al ristorante del Parco del Foro Italico – per intenderci, il mitico Bar del tennis – erano diventati delle riunioni elettorali. Sempre più ristrette al suo adorato cerchio magico, che comprende membri permanenti e altri temporanei, come al Cio. Sempre allo stesso tavolo, il tavolo del direttore, che deve restare rigorosamente vuoto quando lui non c’è. Sempre con lo stesso menu: spaghetti al pomodoro, una Coca e un pacchetto di Marlboro rosse, che più in là abbandonerà. E con un pensiero fisso, praticamente un’ossessione: ottenere il consenso. Il più largo possibile. Così, ognuno dei commensali portava al tavolo l’esito delle proprie indagini e alla fine il responso era sempre lo stesso: “Ce la faccio. E se va male, è anche meglio. Mollo tutto e parto per la Namibia. Vorrà dire che questo mondo non mi merita”.  E tutti, ovviamente, ad annuire. Perché se frequenti il direttore (anche oggi, il mitico Toni, responsabile del ristorante, lo chiama così, del resto suona meglio di amministratore delegato), non sei tenuto a dargli sempre ragione, ma a riconoscerne il valore – umano e professionale – che lui ritiene ampiamente superiore alla media dei dirigenti sportivi con cui, suo malgrado, ha a che fare quotidianamente. Che poi, non è tanto sentirsi superiore, quanto diverso. Ecco, Diego Nepi Molineris si sente diverso. Anche oggi che è definitivamente sceso a patti con quel mondo di miserie umane che abita la politica sportiva, lui si sente diverso. Uno di lotta e di governo, come si diceva una volta della Lega che è stata ed è uno dei suoi principali sponsor. 

 

Diverso. E infatti, più o meno ogni giorno, gli capita di chiedersi cosa ci faccia qui, tra noi comuni mortali, alle prese con le nostre intelligenze limitate e i nostri vestiti dozzinali (lui, ha un’eleganza tutta sua, e una predilezione per i mocassini con la nappa), e oltretutto a uno stipendio ridicolo per il suo genio (i 240 mila euro lordi annui che fino a qualche giorno fa erano il tetto massimo per un manager pubblico). Eppure, da questo mondo che vorrebbe avere la forza di ripudiare, in realtà non riesce a staccarsi, perché ne è irrimediabilmente attratto. Dice: è l’amore per lo sport. Suvvia. Ribadisce: voglio ridisegnare la pratica sportiva in Italia, come disse una volta alla Nazione, che lo definì “un artista dello sport”. Vabbè. Non è altro che il potere, bellezza. Il potere di decidere i destini dello sport italiano. Detto meno nobilmente: il potere di tenere per le palle quaranta, quarantacinque presidenti federali, più gli enti di promozione sportiva, e le discipline associate, e le benemerite, eccetera, eccetera, eccetera. Tutti, chi più chi meno, dipendono da lui. Perché tutti, anche chi è diventato “ricco da far schifo” magari perché è inciampato sul numero uno del mondo, non vogliono e non possono fare a meno dei soldi pubblici. E perché è lui, al secolo Diego Nepi Molineris, 54 anni appena compiuti, che taglia le fette della torta. Una torta, euro più euro meno, che ormai vale mezzo miliardo. Capito?     

 

Perché Nepi alla fine ce l’ha fatta. Dal 3 agosto 2023 è amministratore delegato di Sport e Salute, la partecipata del Mef partorita dalla mente di Giancarlo Giorgetti nel 2018 con l’obiettivo, centratissimo, di togliere al Coni, anzi a Giovanni Malagò, il controllo dello sport italiano. Allora, da direttore marketing e sviluppo della Coni Servizi, Nepi era diventato una delle leve con cui il presidente del Comitato olimpico esercitava il suo controllo. L’altra, era Francesco Soro, il capo di gabinetto che Malagò, non a torto, considerava una sua creazione. Con lui, accusato di intelligenze col nemico (Giorgetti), lo strappo, violentissimo, fu immediato. Oggi Soro, dopo un passaggio più periferico al Poligrafico, è il direttore generale del Mef e per Malagò questo ha chiuso il cerchio. Con Nepi, che le intelligenze le tiene con tutti, amici e nemici, a patto che riconoscano innanzitutto la sua di intelligenza, il distacco fu più graduale, ma distacco comunque è stato. E dal 2021, da quando il manager senese ha deciso di indossare la maglia di Sport e Salute, il distacco da Malagò è diventato gelo.

 

Così lontani, anche esteticamente – l’avvocato col ciuffo biondo da circolo romano contro l’artista con l’abbronzatura da una vita in vacanza – eppure così vicini, Soro e Nepi, oltre all’accusa di parricidio, hanno condiviso a lungo, ognuno sostenuto da un robusto ego, l’ambizione di cambiare lo sport italiano. Le sue consuetudini spesso degenerate in malcostume; le sue visioni regolarmente frustrate da logiche ministeriali; i suoi obiettivi irrimediabilmente limitati dalla mancanza di risorse. Entrambi troppo stretti negli abiti da cavalieri serventi di Malagò, a un certo punto hanno deciso di liberarsene. Ma hanno preso due strade diverse. L’uno, ha osato l’inosabile: uccidere il padre con la sua stessa arma, il potere delle relazioni. Ci è riuscito, ma ha pagato un prezzo altissimo, è passato come il grande traditore e lo sport, dove fino all’ultimo ha tramato, muovendosi in quel mondo di sotto che quelli bravi, dandosi una patente di nobiltà, definiscono “deep state”, ma altro non è che un reticolo di tunnel poco illuminati e molto insidiosi che collegano il Foro Italico ai Palazzi del potere, alla fine lo ha definitivamente rigettato. Espulso. E il caso (il caso? Chissà) ha voluto che il cartellino rosso di fatto glielo mostrasse proprio Nepi, il suo contraltare. Divenuto ad di Sport e Salute, infatti, Nepi ha avuto la forza di trattare con il rivale vicino a Giorgetti l’allontanamento dalla società di figure in qualche modo a lui (Soro) riconducibili, che avrebbero potuto remargli contro. Del resto, Nepi aveva e ha le spalle coperte. Formalmente nominato dai ministri Abodi e Giorgetti (il Mef, per chi non lo sapesse, è azionista al 100 per cento della società), in realtà il suo sponsor principale era ed è il ministro leghista, mentre il titolare dello Sport, è cosa nota, avrebbe scelto volentieri qualcun altro. Alla fine, quando furono chiamate a ratificare la sua nomina, le Commissioni Cultura di Camera e Senato lo votarono all’unanimità, e il presidente della Federtennis Angelo Binaghi, con cui organizza gli Internazionali di Roma, prossimi a un nuovo accordo pluriennale dopo mesi di trattative infuocate, lo ammonì: “Dottore, non mi piace per niente che la abbiano votata tutti…”.

 

La nomina ad amministratore delegato della società è stato il culmine di un percorso in cui, con la forza del suo lavoro e una buona dose di paraculaggine, Diego Nepi è riuscito a far credere a tutti, o quasi, che il suo profilo fosse quello di un tecnico, innamorato dello sport (vero, è stato anche discreto nuotatore) e al di sopra degli schieramenti politici (più o meno). E’ stato intelligente, si è mosso con giudizio e circospezione, tenendosi lontano dai riflettori, anche se oggi gli capita di cedere talvolta alla vanità, evidentemente qualcuno deve averlo convinto che non può ignorare i social. Non si è fatto divorare dall’ambizione né rodere dal risentimento quando lo mettevano all’angolo, ha avuto pazienza, non ha sgomitato, non si è fatto vedere nei salotti né nei circoli in riva al Tevere. Frequenta abitualmente nella bella stagione solo la piscina del Foro Italico, dove spesso riceve l’amico Mario Orfeo. Ha tessuto le sue trame ma lo ha fatto senza ricorrere a faccendieri né spargendo schizzi di fango. Ha flirtato col potere ma mai vendendo la pelle dell’orso. Si è piegato – quando in realtà lui racconta di essere tipo da spezzarsi piuttosto – quando gli è stato imposto di portare a bordo Giuseppe De Mita, con l’ancora poco comprensibile mansione di “Direttore Sport Community”, e quando il suo presidente, quel Marco Mezzaroma che da frequentatore abituale delle sorelle Meloni pare abbia preso nel cuore di Giorgia il posto che era di Abodi, ha avocato a sé la gestione della biglietteria dell’Olimpico, vera centrale di potere. Soprattutto, in questi anni Nepi ha sfruttato a uso e consumo della sua carriera la grande bellezza del Foro Italico, da immobiliarista, più che da architetto, garantendo un riparo a chiunque cercasse una casa. Soprattutto a chi aveva pochi soldi (e ancor meno tesserati) in tasca. E così, il Foro Italico, che per anni era stato la casa del calcio e del tennis, una volta l’anno dell’atletica e del nuoto, ha ospitato in questi anni beach volley, calcio a 5, taekwondo, padel, pickleball, prossimamente la danza sportiva, in futuro chissà. E ovviamente, concerti all’Olimpico. Tanti concerti. Da Vasco ai Coldplay, perché i concerti portano soldi. Tanti soldi. Un overbooking di eventi, per ognuno dei quali, ça va sans dire, si rende necessario l’uso della forza lavoro di Sport e Salute, giovani ambiziosi cui il nostro ha donato tutta la sua sapienza, oggi dei maghi dell’allestimento cui nessuno può fare a meno, nemmeno l’opulento esercito del tennis che lasciato solo non saprebbe nemmeno dove cominciare a piazzare una rete. Ogni tanto il calendario esplode, provocando più di qualche malumore. Pazienza, nessuno fiata. Il coltello dalla parte del manico ce l’ha sempre lui. Un caso emblematico, agli ultimi Internazionali di tennis, lo Stadio dei Marmi-Pietro Mennea (la cui pista, peraltro, è stata recentemente rifatta) sequestrato per due mesi e mezzo dal tennis, nel silenzio dei vertici della Fidal (atletica leggera), poco più avanti “ricompensati” con un milione di euro assegnato per il progetto Pista 2.0 (e chissà cosa vuol dire).

   

Del resto, i soldi, che magari non fanno la felicità, aiutano a vivere meglio. E siccome, detto volgarmente, Nepi tiene la cassa che un tempo fu del Coni, non si ricordano, a parte qualche isolata eccezione (Luciano Rossi, presidente del Tiro a volo), polemiche di presidenti federali per la recente operazione di riqualificazione immobiliare, la celeberrima Sestante, in base alla quale Sport e Salute ha improvvisamente bussato alle Federazioni che occupano immobili di sua proprietà per chiedere affitti, a detta dei malcapitati destinatari dell’avviso di sfratto, fuori mercato (per strutture, va detto, che in molti casi cascano a pezzi). Nelle chat tra i presidenti, tutto un ribollir di sangue. Pubblicamente, non si è mossa una foglia. E a proposito di brutalità, silenzio assoluto anche quando Sport e Salute ha deciso di tirare giù dai Palazzi delle Federazioni di Roma e Milano le insegne del Coni, con tanto di cinque cerchi buttati nella spazzatura. Come alla fine dei regimi. Suvvia, c’era davvero bisogno di un gesto tanto eclatante? (E infatti, qualche giorno fa, i cinque cerchi, in piccolo, sono ricomparsi).  

   

Senese della contrada dell’Istrice, “mamma cosmopolita e papà agricoltore” come li definì a Tommaso Labate in una delle rare, un tempo rarissime interviste concesse, una figlia cui ha dato un nome degno del personaggio che ha ritagliato per sé (Fiaba), un rapporto difficile con le donne (“lui colpisce e scappa via…”, cantavano gli Stadio), una laurea in Scienze politiche e un’altra, in Architettura, che vorrebbe ad honorem. Manager con la matita, anzi i pennarelli in mano (se volete farvelo amico comprategliene una scatola da Poggi in via di Ripetta), da quando ridisegnava centri commerciali, che poi sono diventati aeroporti e stazioni, e dal 2005 sono impianti e allestimenti sportivi, di ogni genere, a ogni latitudine, dai marmi bianchi del Foro Italico – un complesso architettonico unico al mondo di cui di fatto dispone in via più o meno assoluta, e in cui ogni anno toglie e aggiunge elementi, praticamente il suo giocarello – ai quartieri generali delle delegazioni olimpiche, le celebri Case Italia, di cui si è occupato fino a Tokyo (forse l’unica cosa che oggi rimpiange davvero), fino alla riqualificazione del centro sportivo di Caivano, nel luogo dove si consumò quell’orrore indicibile, operazione di cui va giustamente fiero. Diego Nepi è cambiato ma lo trovate sempre allo stesso tavolo, senza sigarette (oggi svapa), circondato dai suoi adepti, un po’ ammiratori un po’ adulatori. Poi si stufa e Orso, l’autista di una vita, lo porta via. A casa, in pieno centro. A due passi dalla Camera, ma distante dai circoli di Roma Nord. Così vicino, eppure così lontano dal potere.

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