Ansa
Il foglio sportivo
Dino Zoff prende gol solo nei sogni
Un viaggio tra i ricordi della leggenda azzurra tra Agnelli, Platini e Diego: "Non eravamo una generazione di sognatori seriali, come sono state quelle che ci hanno seguito. Allargare gli orizzonti oltre il visibile mi pareva irrispettoso. E, invece, tutto ha cominciato ad arrivare in fretta”
"Per me Mariano del Friuli, dove sono nato 83 anni e passa fa, non è solo un piccolo paese di 1.467 abitanti famoso per le seggiole che seguita a costruire dal XVIII secolo. È la patria dove tutto ebbe inizio. Dove c’era la mia famiglia e per vent’anni ho vissuto e cominciato a tenere fra le braccia un pallone”. Dino Zoff misura e pesa le parole con la stessa calma e ragionevolezza che utilizzava per parare e sventare il pericolo. Per difendere quella patria molto più piccola anche di Mariano del Friuli, che aveva per confini i legni della porta.
“I miei genitori facevano i contadini e mi hanno fatto capire, sin da quando ero bambino, che la cosa più importante è imparare a fare bene il proprio mestiere, senza cercare alibi, scuse o giustificazioni. Mio padre veniva raramente alle mie partite, ma, per farle capire che persona era, le racconto di quella volta che, dopo aver visto in televisione un gol segnatomi con un tiro dal limite dell’area, neppure tanto parabile, come lui pensava, mi chiese perché non fossi riuscito a prenderlo. Gli risposi, ma solo perché era la prima cosa che mi venne in mente, che quel tiro non l’avevo visto partire. Replicò con la sua indimenticabile severità che avrei dovuto accorgermene, visto che, a detta di tutti, facevo il portiere e non il farmacista. Ho girato in lungo e largo l’Italia, ho conosciuto da vicino il mondo, ma la mia patria non si è mai spostata da Mariano del Friuli. Lì ho appreso i fondamentali che mi hanno fatto da guida per tutta la mia vita: il senso del dovere, la lealtà, il comportamento da tenere e il rispetto che si deve agli altri”.
Portiere qualche volta si nasce?
“Presidiare la porta è stata una scelta che mi è venuta naturale. Sono stato sempre in porta. Non sono diventato portiere per ripiego. L’ho sempre fortissimamente voluto già quando era nient’altro che puro divertimento. All’inizio ho avuto il problema dell’altezza e forse anche per questo ho fallito, in rapida successione, un provino con l’Inter e un altro con la Juventus. Sono cresciuto sino a un metro e ottantadue grazie alle uova in eccesso che mi procurava mia nonna e al padrone della falegnameria davanti a casa mia che, come secondo lavoro, faceva il presidente della Marianese e, come terzo, il misuratore e testimone dei miei progressi altimetrici. Con la squadra del mio paese, presieduta dal falegname dirimpettaio, ho disputato il campionato di Promozione. Mi sembrava già tanta roba. Non eravamo una generazione di sognatori seriali, come sono state quelle che ci hanno seguito. Allargare gli orizzonti oltre il visibile mi pareva irrispettoso. E, invece, tutto ha cominciato ad arrivare in fretta”.
La gavetta è stata breve…
“Sì, la prima squadra forestiera è stata l’Udinese, prima le giovanili, poi il campionato riserve e, finalmente, l’esordio in Serie A a Firenze. Dopo Udine arrivarono tre felicissimi anni a Mantova, coronati dall’incontro con Annamaria. Un amore a prima vista, che si è consolidato ed è rimasto intatto nel tempo, senza smarrire mai il filo che ci teneva uniti. Allora era meno complicato. La trottola della vita girava meno velocemente di quanto giri oggi e il rischio di cadere e di farsi male era, vivaddio, attutito dall’amore”.
Dal Mantova al Milan, anzi al Napoli, per quello che a qualcuno deve essere sembrato il viaggio all’incontrario di Candido Munafò, il protagonista del romanzo di Leonardo Sciascia emigrato dalla Sicilia a Torino per inseguire il suo sogno. Anche il suo era un viaggio apparentemente contromano...
“Fu un trasferimento last minute. Dovevo andare al Milan, si era ai dettagli, ma tutto saltò in extremis e il Napoli fece appena in tempo a chiudere la trattativa prima che scoccasse la mezzanotte del 15 luglio. Fu una grande fortuna per me e per il Milan. Per me, perché l’accoglienza fu tanto calorosa, da farmi sentire a casa mia, e perché, di lì a poco, mi si spalancarono le porte della Nazionale, con l’esordio vincente e immacolato con la Bulgaria. Per il Milan, perché Nereo Rocco diede fiducia al ‘Ragno Nero’ Fabio Cudicini, che mise in fila sei campionati strepitosi”.
Era l’anno di grazia 1972, quando il Napoli, che aveva bisogno di soldi, la vendette alla Juventus, la squadra per cui lei aveva tifato da bambino. Sarebbero state undici stagioni indimenticabili, piene di tutto. Ad accoglierla furono immancabilmente Giampiero Boniperti e Gianni Agnelli…
“L’Avvocato non era solo un grandissimo tifoso, ma anche un appassionato di calcio. Prima di arrivare alla Juventus, avevo già giocato una quindicina di partite con la Nazionale e conosciuto sul campo tanti calciatori stranieri di valore. Lui mi chiedeva ogni volta di questo e di quello”.
Telefonava anche a lei alle 6 del mattino?
“No, mi chiamava intorno alle otto e mezzo. Per mia fortuna dovevo essere, a occhio e croce, il ventesimo della lista”.
Che cosa era quello stile Juve, che oggi mi sembra si sia un po’ perso…
“La presenza della società era palpabile in ogni momento. C’era un’attenzione estrema ai comportamenti. Il cartellino dei calciatori apparteneva alla società ed era, anche per questa ragione, più facile trasmettere il valore della serietà e del rigore. Andare alla Juventus era un po’ come essere assunti alla Fiat. Tutto doveva funzionare alla perfezione e combaciare, proprio come in una catena di montaggio”.
Un cammino trionfale in Italia, con sei scudetti vinti, un po’ meno in Europa…
“Una Coppa Uefa vinta contro l’Athletic Bilbao, ed era il primo trofeo internazionale della Juventus e due finali di Coppa dei Campioni perse, sicuramente con un po’ di rimpianto, contro Ajax e Amburgo”.
Con la Nazionale, invece, ha sfiorato l’en plein…
“Sono l’unico italiano che ha nel suo palmares un campionato del mondo e un Europeo, che valeva molto di più di quelli che si giocano ora. Nella Jugoslavia, che sconfiggemmo a Roma nella finale bis, c’erano cinque nazionali d’oggi e nell’Urss addirittura diciassette”.
C’è un desiderio incompiuto che le è rimasto dentro, per colpa del calcio?
“Assolutamente no. Il calcio mi ha dato tanto. Io mi sento un uomo di sport e, come tale, ho concepito e vissuto il calcio. Le regole, il comportamento, il rispetto per gli avversari, che non sono mai stati miei nemici, me li ha insegnati il calcio. E, giocando a pallone davanti a decine di migliaia di persone, ho sconfitto quella timidezza che mi portavo appresso come un fardello sin da bambino. Ho sempre creduto che lo sport sia capace di migliorare le persone in profondità, ben oltre, quindi, il puro risvolto economico. Naturalmente se praticato, come ho cercato di fare io, rispettando i canoni non scritti che lo regolano e da sempre gli fanno da cornice. E, se questo avviene, diventa più affascinante anche lo spettacolo per chi da sopra guarda”.
Lei ha giocato con Platini…
“Semmai Platini ha giocato con me… È uno scherzo che diverte anche Michel, un grandissimo della sua, e mia, epoca, come nella Juventus lo erano stati John Charles e Omar Sívori, ma il più grande di tutti delle migliaia che ho visto giocare è per distacco Diego Armando Maradona”.
Il più pazzo?
“Paul Gascoigne, che ho avuto come giocatore quando ho allenato la Lazio. Un artista veramente pazzo. Mi legava a lui un rapporto di odio e d’amore. Con i veri artisti è sempre così. Io gli artisti li ho sempre invidiati per non aver ricevuto in dote dal destino, per tutti gli altri versi generosissimo, la stessa fantasia che hanno loro. Paul l’ho amato come pochi, ma Dio solo sa quanto mi ha fatto arrabbiare”.
Qual è stata la sua bestia nera?
“Senza ombra di dubbio Paolino Pulici. La verità è che lui era molto più forte quando si giocava a Torino e i derby con la Juventus si disputavano per mia disgrazia tutti lì”.
E la parata più bella?
“Quella decisiva nella partita con il Brasile ai Mondiali dell’82 è stata sicuramente la più importante. Il colpo di testa di Oscar era ben indirizzato e oltretutto io non potevo respingere il pallone perché intorno a me era pieno di maglie verde-oro. Non potevo neppure far mostra di spingerlo in fuori, perché avrei rischiato di avvalorare l’ipotesi che il pallone avesse varcato la linea bianca. Ricordo, come se fosse ora, il mio attimo di terrore che finì quando guardai l’arbitro e vidi che era andato tranquillamente oltre. Fosse entrato quel pallone, saremmo tornati a casa con una delusione che avremmo dovuto aspettare chissà quanto tempo per smaltire”.
Rimpianti?
“Anche se come ct della Nazionale ho perso un Europeo contro la Francia per un gol subito a 15 secondi dalla fine, perché un nostro calciatore ha chiamato la palla senza rendersi conto di essere finito in fuorigioco, rimpianti non ne ho. E non devono esserci. Mai. Quello che la vita ti dà non sempre è meritato sino in fondo. E la vita mi ha dato tanto. Mi va strabene così. Anzi, forse sono in debito con i ringraziamenti”.
Zoff lei sogna ancora?
“Sì, c’è un sogno ricorrente che angustia le mie notti. Sono gol, che nella vita reale non ho mai subito, di cui sono platealmente responsabile. Errori pacchiani, che mi invento nel sogno. Come una sorta di inconscio contrappasso. Io, che durante tutta la mia carriera, mi sono sempre assolto per tutti i gol che ho incassato, convincendomi che non ero in condizione di fare diversamente e archiviandoli subito come parte non rimediabile del passato, mi ritrovo ad arrabbiarmi di notte per una montagna di papere virtuali. In compenso sono troppo felice quando mi sveglio e mi rendo conto che è stato solo un brutto sogno e che quello che si agita scompostamente non sono io”.
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