Terry Rozier (foto Ap, via LaPresse)
il foglio sportivo
Le mani della mafia sulle partite Nba
Che bufera sul torneo più internazionale di sempre: maxi-inchiesta dell'Fbi su un grosso giro di scommesse illegali, arrestati l'allenatore di Portland Chauncey Billups e Terry Rozier, appena sbarcato ai Miami Heat. Intanto l'internalizzazione dell'Nba non si ferma: 135 giocatori provengono da 43 paesi extra Usa
Ci vorrà un po’ per capire l’effettiva dimensione della bufera che si è abbattuta in questi giorni sul basket americano, al centro della maxi-inchiesta coordinata dall’Fbi su un grosso giro di scommesse illegali (in cui è coinvolta anche la mafia). Già così però è uno scossone epocale, proprio mentre le squadre tornano a giocare: nel momento in cui scriviamo, fra gli altri, sono stati arrestati Chauncey Billups – vincitore dell’anello a Detroit nel 2004, ora allenatore di Portland – e Terry Rozier, appena sbarcato ai Miami Heat. “Saranno licenziati con effetto immediato”, ha preso atto l’Nba, mentre l’indagine federale prosegue e potrebbe portare ad altri arresti (il numero di professionisti indagati sarebbe cospicuo).
Preambolo necessario, prima di parlare di campo. Per l’acronimo di Nba – National basketball association – ormai si farebbe bene a valutare un ritocco semantico al passo coi tempi. Perché il 2025/26 sarà di gran lunga la stagione più internazionale della storia della lega: 135 giocatori da 43 paesi al di fuori degli Stati Uniti. Due numeri che sono entrambi da record. E raccontano una tendenza sempre più netta, certificata su ogni lato del parquet. La trasfigurazione del premio Mvp – vinto da cestisti stranieri nelle ultime 6 occasioni su 7, a fronte di 4 nelle precedenti 63 – rappresenta la scintilla all’apice del movimento. Di Jokic o Antetokounmpo non ne nascono però tutti i giorni. Dunque è perfino più indicativo che dietro di loro si stia affermando una validissima generazione in grado di competere e integrarsi con i professionisti a stelle e strisce. Quasi un giocatore su tre è nato altrove. E per l’Nba non sembra affatto essere un problema.
Ad annunciare le nuove statistiche geografiche, con un certo entusiasmo, sono stati gli stessi organizzatori del campionato. Qualche curiosità sparsa. Tutte le trenta franchigie al via presentano nel loro roster almeno un giocatore di altre nazionalità: gli Atlanta Hawks ne contano addirittura dieci. Il paese più rappresentato è il Canada di Shai Gilgeous-Alexander, con 23 cestisti. Ma l’Europa è in continua espansione: ben 19 arrivano dalla Francia, 7 dalla Serbia, 6 dalla Germania (più il nostro Simone Fontecchio, passato da Detroit a Miami, unico ambasciatore italiano che ha esordito con 13 punti in 19 minuti). In totale fanno 71. Crescono anche l’Australia e gli stati africani. Come mai prima d’ora, anche se i dati recenti erano già ben delineati: è la quinta volta consecutiva che l’Nba annovera almeno 120 cestisti internazionali e la dodicesima in cui arriva a più di 100.
Come cambia il gioco al variare della provenienza? Diventa globale: se da un lato il nostro basket si sta americanizzando sempre di più, nel senso migliore del termine, quello da Boston a Los Angeles si è fatto sempre più rapido, tecnico e in un certo senso poliedrico. Si predilige il lavoro di squadra, il tiro da tre, la corsa in transizione, il peso specifico di leader in grado di eccellere in più ruoli: non è un caso che Doncic, Jokic, ma pure LeBron ne interpretino serenamente tre o quattro. L’anno scorso ha trionfato la coralità dei giovani Thunder, orchestrata dall’estro di Shai. Oggi c’è chi è pronto a scommettere sul bis – impresa mai facile –, anche considerate le problematiche della concorrenza: i Lakers devono far convivere i loro “due re”, Jokic a Denver predica spesso nel deserto, stuzzica semmai l’ambiziosa risalita di Houston che ha arruolato Kevin Durant per dare man forte a Sengun (e se l’antipasto è il match di apertura della stagione, vinto dopo due supplementari da Okc, ne vedremo delle belle). A Est pesa invece la voragine lasciata dai lungodegenti Tatum e Haliburton: oltre al solito Giannis, ne possono approfittare Cleveland e New York.Altri due esempi di rodato team building e pallacanestro moderna.
Magari c’è chi rimpiange lo strapotere muscolare di Olajuwon o Shaq, ripensando ai tempi andati. Sotto canestro ora si alzano le vellutate leve di Wembanyama e altri agilissimi centri (occhio anche al suo ritorno dall’infortunio, in casa San Antonio). Ma al netto delle eccellenze di ogni epoca, questo è. E questo, soprattutto, vende. “L’Nba è uno sport fatto di highlights”, ha ammesso il commissario di lega Adam Silver nelle ultime settimane, sdoganando l’inquietante traiettoria che dall’agonismo atterra verso lo show, almeno nell’estenuante e a tratti soporifera regular season. Perché oggi non è soltanto il resto del mondo a volare negli States, ma anche il basket americano a estendere i suoi orizzonti. I vertici Nba hanno appena annunciato di “voler sbarcare in Europa entro i prossimi due anni”, con una divisione affiliata in grado di intercettare gli appassionati sottorappresentati nelle grandi capitali (Londra, Parigi, Roma, Berlino). Era nell’aria da mesi, ma mai con contorni così concreti, in piena collaborazione con la Fiba. Si dovrebbe giocare in una dozzina di città europee, mescolando squadre nuove con quelle già esistenti. E a quel punto la rotta transatlantica della palla a spicchi, lungo entrambe le direzioni, diventerebbe una realtà ordinaria e a tutti gli effetti internazionalizzante. Anche se adesso, giustizia alla mano, c’è soprattutto un’immagine da tutelare.