
LaPresse
Il foglio sportivo
Il ritorno di Andrea Bargnani
“Non ho rimpianti. Voglio restituire qualcosa al basket che mi ha migliorato e amerò per sempre”, dice il Mago, ora ambassador della Supercoppa italiana che si gioca questo weekend al Forum di Milano
Il Mago è tornato e questa volta non sparirà di nuovo. Andrea Bargnani, ambassador della Supercoppa italiana che in questo weekend inaugura la nuova stagione del basket al Forum di Milano, è gradualmente uscito dall’ombra dove si era rifugiato per farsi gli affari suoi, godersi la vita, l’amore e gli amici e diventare anche padre. Qualcuno aveva messo pure in giro la voce che non aveva mai amato il basket ed era sparito per quello. “Il basket è forse l’amore più grande della mia vita a livello professionale. È una follia anche solo pensarla, una cosa del genere. Semplicemente vivevo e mi occupavo dei miei interessi e della mia famiglia, non è che mi stavo nascondendo da qualcuno o da qualcosa. Ero in contatto con tantissime persone del basket, sia addetti ai lavori sia amici che sono anche addetti ai lavori. L’ho sempre seguito, come farò fino alla morte”, risponde senza giri di parole, supportando il tutto con un sacco di prove: tutti i sacrifici che ha fatto fin da ragazzo per arrivare dove è arrivato, prima scelta assoluta al Draft del 2006, dieci anni tra Toronto e New York con tante stagioni a più di 20 punti di media a partita.
Prima di lui gli italiani erano stati delle comparse (Esposito, Rusconi), dopo di lui sono arrivati Belinelli, Gallinari, Datome, Melli e ora Fontecchio. Un apripista: “Arrivare in Nba è stato andare oltre i miei sogni, perché da piccolo il mio sogno era giocare alla Kinder Bologna, al Barcellona, in quelle squadre. Giocare in Nba e farlo come punto di riferimento d’attacco come sono stato per alcuni anni, diventando il giocatore principale con 20 punti di media, è stata una delle soddisfazioni più grandi. Anche perché quando crescevi nelle giovanili, tutti ti dicevano: “Impara a difendere, difendi, perché tanto poi i punti li fa l’americano… Mi dicevano sempre che i punti li fanno gli americani. Beh, io sono andato in America a fare l’americano da Roma. E’ stata una figata. È stato bello permettere ai ragazzini italiani di sognare l’Nba. Dopo di me, Beli e Gallo hanno capito che anche per noi italiani sarebbe stato possibile sognare di giocare là”. Il suo viaggio era cominciato a Trezzano Rosa, poi proseguito a Treviglio e a Roma dove ha cominciato a esser considerato un uomo del futuro fino all’esplosione di Treviso dove ha trovato un allenatore come Messina che lo ha trasformato e un preparatore atletico come Francesco Cuzzolin che non lo ha più abbandonato: “Ettore è sicuramente una delle persone più importanti della mia carriera, sia a livello mentale che a livello tecnico. Stare da giovane con lui per due anni è stato sicuramente molto duro per certi versi, ma mi ha fatto crescere tantissimo e oggi con Ettore siamo ottimi amici. Ettore era sicuramente un coach molto duro, specialmente vent'anni fa su un ragazzo di vent’anni. Era un coach tosto, però a me è sempre piaciuto molto il suo modo di allenare: era esattamente quello di cui avevo bisogno. Lui e Cuzzolin sono stati fondamentali per la mia carriera”.
Prima di diventare il Mago, soprannome che gli diede Riccardo Pittis a un torneo pre-stagionale a Cagliari quando aveva 18 anni (“Certo che mi piace! Poteva andarmi peggio”), c’era stato un ragazzino che si era innamorato del basket su un campetto di Trezzano Rosa, tra Milano e Bergamo dove lavorava suo padre. “Non ricordo il primo canestro, avevo sei anni, troppo in là. Ricordo le prime squadre giovanili e il primo canestro in Serie A contro la Mabo Livorno e poi il primo canestro in Nba a Toronto. Devo avere anche un Vhs con le immagini di quel primo canestro”. Bargnani ha un grande archivio fotografico che ogni tanto distilla sui social (soprattutto Facebook) e ha tutte le maglie delle squadre in cui ha giocato, anche le più strane. Uno che non è innamorato del basket non le avrebbe tenute. Tra meno di un mese compirà 40 anni. È il momento di fare un bilancio: ”Non ho rimpianti, perché se ti fermi a pensarci non cogli le occasioni. Ho sicuramente fatto delle scelte sbagliate come nella vita di tutti, perché non è che uno può azzeccarle tutte. Se fai tanto è inevitabile sbagliare qualcosa, ma devi sfruttare gli errori per migliorare e fare poi le scelte giuste. Non mi piacciono quelli che si mettono lì a rimuginare troppo”.
La partita della vita è quella in cui segnò 41 punti al Madison Squadre Garden con la maglia di Toronto (era l’8 dicembre 2010): “Purtroppo in Nba non ho vinto niente, anche perché c’è una sola cosa da vincere. Lo scudetto con Treviso resta un grande ricordo, come la prima Supercoppa, anche se l’abbiamo persa, ma è stata la prima volta in cui mi sono seduto in panchina, restandoci per 40 minuti, in una squadra di Serie A…”. Poi Treviso quella Supercoppa l’ha vinta, ma lui era già volato a Toronto. La partita che vorrebbe rigiocare è quella contro la Croazia al preolimpico di Torino del 2016, la sua ultima apparizione in azzurro: “Soprattutto la vorrei giocare da sano. Avevo un osso del piede rotto, poi sono stato fermo due mesi e mezzo”. Alla generazione dei Bargnani, Belinelli e Gallinari è mancato proprio quello: una vittoria in Nazionale. “Il problema è che abbiamo giocato pochissime partite insieme. Quando c’ero io, magari non c’erano loro e viceversa. Per colpa degli infortuni ci è mancata la continuità, quella che ad esempio hanno avuto i grandi giocatori spagnoli in quel periodo”.
Ma adesso come sta il basket italiano: “Se leggi la classifica di EuroHopes che è uscita l’altro giorno, la Serie A è al sesto posto. Due anni fa era al quarto, prima ancora al terzo. Se guardi i numeri o come ci vedono dall'esterno, sicuramente la Serie A non è nel suo massimo splendore. Una volta un giocatore tagliato dall’Nba vedeva l’Italia come prima opportunità, oggi non più. I palazzetti sono vecchi, ma qui non è solo colpa del basket. Ci sono tanti fattori che entrano in gioco. Oggi i nostri giovani e non solo i migliori sentono anche il richiamo delle università americane che possono pagare e offrire gli studi. La concorrenza è cresciuta, ma anche qui non è solo un problema del basket, ma di tutto il mondo del lavoro. Quale padre rinuncerebbe a un’offerta simile? Ci vuole coordinamento tra tutti i player in gioco. Ci si deve parlare e guardare all’insieme perché alla fine sarebbe tutto il movimento a guadagnarci”. E Bargnani che cosa può dare al basket? “Vorrei restituire quello che ho ricevuto. Il basket mi ha cambiato la vita e vorrei ridare qualcosa. Non penso ad allenare, ma magari potrei lavorare individualmente con qualche giocatore. Pensare di allenare 12 giocatori, 12 teste come la mia, mi fa venire la nausea solo a pensarci. Ma lavorare individualmente mi piacerebbe. Il lavoro di Datome con le Nazionali mi piace e lui è molto bravo. Vedremo. Di certo non sparirò”.



Editoriali