
(Ansa)
Il racconto
La brutta storia di Collegno e una piccola verità: scuole calcio e genitori sono la vera sciagura
I ragazzini di tredici anni non sono né buoni né leali. Anzi hanno la tendenza innata a essere letali, appena possono. E lo sport, il calcio soprattutto, ha smesso di essere un antidoto educativo dai tempi di don Bosco
Per giorni siamo stati edotti che questo sciagurato di Collegno, il padre che è entrato in un campo di calcio giovanile e ha aggredito il portierino, 13 anni, della squadra avversaria di quella di suo figlio era l’unico mostruoso colpevole. E il giovane portiere la vittima. Ieri abbiamo però scoperto che il portierino aggredito è stato squalificato per un anno (un anno a 13 anni vale un ergastolo) per essere stato lui protagonista della violenta rissa, “pugni e manate a un avversario steso a terra”. E ha provocato addirittura la frattura del bacino al giocatore dell’altra squadra, quello il cui genitore, con foga malamente patriarcale, aveva provato a “difendere”. O meglio a farsi giustizia sul campo. Anche l’altro ragazzo è stato squalificato, come pure il babbo del portiere, dirigente della squadra, coinvolto nella rissa. Poco male per le informazioni inesatte dei giorni scorsi, su cui si erano ovviamente montati castelli in aria – il portiere vittima del patriarcato inviato dalla Nazionale, per bocca addirittura di Gigio Dommarumma – del resto per una settimana ci hanno spiegato che Pippo Baudo era l’ultimo re d’Italia, poi invece era Armani.
Imprecisioni a parte, e ora che torna la Nazionale con tutta la fuffa valoriale appresso, la pessima vicenda di Collegno costringe a qualche riflessione libera da moralismi. Primo, che i ragazzini di tredici anni non sono né buoni né leali, anzi hanno la tendenza innata a essere letali, appena possono. E lo sport, il calcio soprattutto, ha smesso di essere un antidoto educativo dai tempi di don Bosco. Secondo, che il ruolo dei genitori attorno alle performance sportive dei figli è sovente quanto di più deleterio, diseducativo e generatore di violenza si possa immaginare. Papà sugli spalti che insultano gli arbitri, e persino i propri figli se non sono abbastanza “cattivi”, sono sciagura quotidiana. Ma non è solo il calcio: ci ricordiamo dello stress, dalle ansie da prestazione fino alla crudeltà mentale che le mamme buttano sulle spalle delle “farfalle” della ginnastica o dei pesciolini del nuoto? La tristr verità è che almeno nel calcio – che guarda caso in Italia non produce più un talento da decenni – le “scuole” e le società giovanili andrebbero chiuse. Lasciate i ragazzini giocare liberi e (persino meno) selvaggi.
Il grande Johan Cruijff, cresciuto sui campetti di cemento, una volta raccontò: “All’Ajax a volte allenavo i ragazzi di dieci anni. Li portavo nel parcheggio perché lì si apprendono tante cose: se ti scontri con un giocatore e cadi sul cemento, ti fai male, ti graffi, senti dolore o addirittura sanguini. E allora devi diventare sveglio, devi imparare a muoverti più rapidamente e decidere più in fretta che cosa fare con la palla”. I grandi brasiliani, e oggi gli africani, e i francesi di banlieue, hanno imparato a giocare a piedi nudi sui sassi e l’asfalto e senza nessun allenatore che gli urlasse in testa. Spesso hanno gioicato, e vissuto, senza nemmeno i padri. E buon per loro.