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Il Foglio sportivo

Un viaggio tra i segreti del Palio

Fabio Tavelli

I riti, senza scaramanzia, che hanno portato il Montone alla vittoria. Seguire la competizione da dentro significa immergersi in un mondo antico fatto di orgoglio, alleanze e passione collettiva 

La domenica mattina dopo la notte del Palio il rumore che sale dalle strade torna a essere quello dei trolley dei turisti. Alcuni se ne vanno dopo aver vissuto due giorni di pura estasi, altri arrivano proprio oggi per evitare il delirio. Fino a poche ore prima era tutto un rullio di tamburi, di cori, di bandiere a garrire nel vento alimentato dal petto gonfio dell’appartenenza. Scordatevi le scazzottate che si raccontano nei bar. Oggi lo sguardo è fiero, ma non arrogante, nessuno alza un dito su un rivale. Al limite lo canzona, lo prende in giro. Benvenuti a Siena, esempio unico di città-stato in Italia, libera repubblica federale dove il Priore di una Contrada vale come un capo di stato e un Capitano è come fosse il commissario tecnico della Nazionale di calcio. Identità, fede, rivalità e orgoglio collettivo si mescolano per il resto del mondo in due giorni sul calendario, il 2 luglio e il 16 agosto. Ma per loro, i contradaioli, sono sangue e memoria, appartenenza ed eredità genetica da portare con il petto gonfio di orgoglio ogni giorno dell’anno. Per vivere il Palio non da turisti, non da attratti da qualcosa che a uno sguardo superficiale può apparire folklore bisogna battezzare una Contrada e andare con loro nel cuore dei riti fin dal giorno prima della corsa. La “mia” è quella di Valdimontone. Lo è diventata per amicizia con un senese in purezza. Mi invita a venire a Siena il giorno di Ferragosto e mi assicura che solo così potrò davvero capire, da forestiero e neo-oriundo del Montone (perché è chiaro che da adesso io mi considero uno di loro), cosa davvero significhi il Palio. 


Quando dico che Siena è una città-stato non credo di esagerare. Le Contrade hanno poteri enormi per regolamentare la vita nei loro, in molti casi, angusti confini. La democrazia è diretta, direttissima. Ogni contradaiolo è chiamato a votare per provvedimenti importanti che riguardano la collettività. Il Priore di Valdimontone si chiama Alberto Benocci. È un uomo alto, calvo, ha barba lunga alla Tiziano Terzani. Potrebbe essere scambiato per un personaggio de Il nome della rosa di Umberto Eco. Riesce a portare sempre la giacca nonostante una temperatura che raggiunge livelli assurdi e insopportabili durante il rito pagano della benedizione del cavallo. Benocci è colui che prende per primo la parola nella cena che le contrade organizzano la sera prima del Palio. Da Valdimontone si gode di una vista pazzesca sul tramonto del disco giallo dietro la Torre del Mangia e il campanile del Duomo. I contradaioli del Montone hanno allestito una tavolata per almeno 2.400 persone. C’è un solo tavolo per le autorità, posto prima della scalinata davanti alla chiesa, la Basilica di San Clemente in Santa Maria dei Servi. Lì siederanno Priore, Capitano, fantino ed altri dirigenti. “Noi avevamo prenotazioni per circa duemila persone. Poi quando hanno saputo che il cavallo sarà Anda e Bola e il fantino “Gingillo” se ne sono aggiunti altri 400… perché noi stavolta il Palio lo si vince!”… mi assicura uno dei cuochi che sta preparando un risotto che per tutte quelle anime è a fortissimo rischio di scottura (poi invece arriverà perfetto). 


La cena della Contrada la notte prima del Palio è uno dei più importanti momenti di autofinanziamento. Non è l’unico, ce ne sono decine durante l’anno. Il “Montone” è una contrada di quelle grandi, molto probabilmente è quella che ha il budget più importante. Amministrare quel patrimonio significa offrire al Capitano e al fantino armi ulteriori per negoziare al meglio gli inevitabili accordi che rendono il Palio una zona franca dove quel che si fa è un po’ come quel che accade a Las Vegas. Deve rimanere in quei confini. “Per noi domani è come battere un rigore”, dice a un certo punto il Priore scatenando entusiasmi da stadio. Mi colpisce l’assenza di scaramanzia nelle sue parole. Eppure tanti contradaioli mi hanno detto di temere tantissimo il Leocorno, che ha come fantino il fuoriclasse “Tittia”, il Pogacar dei fantini di oggi. Che per altro monta un cavallo fortissimo, Diodoro. Ma il Montone ha Giuseppe Zedde, detto “Gingillo”, che alla cena dice: “Qui mi sento bene, sento di essere a casa”.  Lui che non vince un Palio da sette anni (era il 16 agosto 2018 e difendeva i colori della Lupa) e monterà Anda e bola, ovvero un castrone Baio del 2016 con il 34,62 per cento di sangue arabo. Il Montone non vince il Palio dal 2012. La notte arriva presto, tra canti e incitamenti propiziatori. Tutti pensano che Leocorno e Civetta (per altro due contrade arcirivali) siano battibili e alle prime luci dell’alba riprenderà il lavorio diplomatico del Capitano, Aldo Nerozzi, mentre in cucina si fanno i conti dell’incasso per dare a “Gingillo” altre munizioni per essere, diciamo, più convincente nei canapi. 


Il giorno del palio, 16 agosto, il primo rito è quello della benedizione del cavallo. E pure del fantino, perché non si sa mai. Niente di più laico e pagano in un tempio cristiano. La chiesetta è minuscola e tutta affrescata. “Niente riprese con il telefonino e nemmeno potete usare i ventagli per farvi vento”, ammonisce un ragazzo del servizio d’ordine. Che è organizzato militarmente in modo che non sfugga nulla. In questo caso si vuole evitare che il quadrupede si imbizzarrisca mandando a monte uno dei momenti più attesi. Don Paolo è prontissimo sull’altare, lui che è viareggino e che è al ventesimo anno di benedizione dei cavalli del Montone. In un silenzio spettrale, e con una temperatura che supera largamente i 40 gradi con tassi di umidità illegali, arrivano il Priore, il Capitano, il fantino e Anda e Bola. Don Paolo sa perfettamente che tutto deve svolgersi rapidamente per evitare collassi tra gli astanti e che il cavallo decida che ne ha abbastanza. Recita un “Padre nostro” da manuale, ma già all’Ave Maria mette le marce alte per arrivare alla benedizione vera e propria, che si completa con la frase di rito: “Vai, e torna vincitore…!”.


Il popolo si scioglie, letteralmente, in un applauso liberatorio. Ora tutto è compiuto. Non tutte le contrade benedicono il cavallo in chiesa, alcune scelgono di farlo all’aperto, in una piazza. Non sono nemmeno le 15 e c’è da preparare la passeggiata storica che riempirà Piazza del Campo fino al colpo di cannone delle 19. Poco dopo le tre del pomeriggio nella zona di via di Città ci sono almeno cinque contrade che sfilano tra quelle vie così strette. Anche qui il servizio d’ordine è fondamentale. I tamburini rullano più forte che possono, gli abiti sono rigorosamente medievali e quasi tutti indossano una parrucca. Come possano resistere al caldo, reso insopportabile dal velluto delle vesti, appartiene ai misteri del Palio. Tutte le contrade utilizzano un canto, detto “Rocchio” che ha le stesse parole per tutti, ma consente adattamenti alla singola contrada (da queste parti i parolieri acuti non mancano). Il Rocchio si chiude per tutti con: “La dovete rispettà!”. Le sfilate, sotto gli occhi attenti dei turisti, rischiano di creare ingorghi. Mi infilo in un paio di queste. Si vede chiaramente che non sono uno di loro, non ho vessilli e faccio domande. Mi spiegano che non si sfila a caso, ma gli uomini stanno con gli uomini e le donne con le donne e che ci si raggruppa anche in base all’età. Perché tutti si sentono membri della stessa comunità e vogliono stare accanto a coloro con i quali sono cresciuti. 


Ai lati del corteo si piazzano i contradaioli con le spalle più larghe. Servono a tenere la posizione centrale nella via e a intimidire che volesse infilarsi. Quando proprio non si può evitare il contatto chi non è di contrada viene letteralmente spiaccicato sul muro. I cortei sfilano uno accanto all’altro in senso di marcia opposto. C’è chi sceglie di guardare fisso nel vuoto in avanti e chi invece di lanciare lo sguardo di sfida cercando gli altrui occhi. Tutto, o quasi, è compiuto. Ora non resta che attendere la chiamata del mossiere nell’ordine che la sorte ha deciso. Poi ci saranno quasi 50 minuti di attesa, gestiti con grande maestria dal Leocorno. È il momento più sublime del Palio, quello che se ci fosse un audio con quel che si dicono i fantini, e di quel che si promettono, varrebbe oro. Si tratta, si offre e si rilancia. Il nemico del mio amico è anche mio nemico e via di domanda e offerta. Chi sa di non poter vincere cerca di capire chi vincerà e offre il massimo dell’aiuto. Chi vince il Palio sa che si terrà onori e gloria ma dovrà onorare gli impegni. E nessuno sgarri: chi dovesse rimangiarsi la parola o venir meno a un patto verrebbe bollato come inaffidabile e il danno sarebbe incalcolabile. Per questo ogni accordo viene rispettato. In giornata. Non deve sorgere il sole dell’indomani, tutto accadrà quella notte. Tittia decide che è ora di partire, l’Onda di rincorsa entra, “Gingillo” però è un fulmine, parte a razzo insieme alla Pantera, che fa la sua corsa ma inevitabilmente favorisce Zedde perché tiene dietro il Leocorno. Tittia è un campione, prova a passare a ogni San Martino e a ogni Casato. Ma “Gingillo” lo accompagna sempre tenendolo largo e in un minuto e 12 secondi, terza miglior prestazione di sempre, il Montone esplode nella gioia più incontenibile. Ora la notte è del Montone, “Gingillo” piange di gioia e si gode dall’alto di Anda e Bola lo spettacolo della Piazza che si svuota. Toccherà al Capitano regolare i conti nella lunga notte con le altre contrade. Nell’atto conclusivo di un libro infinito, scritto con il sangue, il sudore e le lacrime di un popolo che non smetterà mai di riconoscersi nella sua corsa infinita.
 

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