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un universo simbolico

Lo sport è avvincente e quasi sacro, basta non confonderlo mai con la vita

Sergio Belardinelli

L’impegno, l’allenamento quotidiano, la dura fatica che stanno dietro al successo di un grande campione sono un grande valore in sé e un’importante testimonianza per tutti. Ma non debbono distrarci dalle cose che contano per davvero

Fin da ragazzino ho sempre visto nei grandi campioni dello sport qualcosa di “divino”, una sorta di incolmabile differenza rispetto alla mia inequivocabile, anche se per nulla frustrante normalità. Per me erano loro i veri “Unti del Signore”. E sebbene col tempo abbia, diciamo così, alleggerito un po’ l’ammirazione nei loro confronti, non riesco a guardare uno scatto in salita di Pogacar, una vasca di Ceccon o un rovescio di Sinner senza pensare che sono “di un altro pianeta”. 

Forse è per questo che rimango basito ogni volta che sento dire che bisogna praticare lo sport perché serve alla salute. Per quanto venga propugnata anche da diversi organismi sportivi internazionali, la trovo un’idea “astratta”, quasi volgare. I valori dello sport sono quelli dell’olimpismo, ossia il sacrificio per raggiungere l’eccellenza, il rispetto delle regole e degli avversari, la lealtà, la bellezza della vittoria e l’onore nella sconfitta. Ma non ci metterei la salute. Questa può riguardare le “attività motorie” che ci consigliano i medici, non certo l’indicibile fatica fisica e mentale di un atleta, la quale, checché ne dicano le futili mitologie della società dello spettacolo, assomiglia piuttosto a una dura forma di ascesi. Del resto non da oggi una sorta di aura religiosa avvolge il mondo dello sport in generale. La ritualità di certi gesti scaramantici da parte degli atleti, i cori e i canti di uno stadio, i fumogeni (come non pensare all’incenso?), tutto richiama una liturgia religiosa. Per non dire della perseveranza negli allenamenti, dell’autodisciplina, del rispetto di certe regole, della concentrazione: tutte virtù che esprimono una sorta di “tempo di quaresima” in vista della gara. E poi ci sono gli allenatori, gli arbitri, i compagni di squadra, gli avversari, la vittoria, la sconfitta: un universo materiale e simbolico che dice in modo inequivocabile la vicinanza dello sport con la religione, attestata peraltro dall’esaltazione della pratica sportiva che ritroviamo nel Cristianesimo. 

Celebri in proposito le parole dell’apostolo Paolo ai Corinti: “Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza meta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato” (Corinti, 1, 9 24-27).

A dire il vero, questo passo ridimensiona di molto l’aura quasi “divina” che ai miei occhi di ragazzino avvolgeva i grandi campioni dello sport, tuttavia non ridimensiona affatto la mia passione sportiva. Pogacar, Ceccon, Sinner o Maradona restano comunque di un “altro pianeta”, anche se adesso so distinguere abbastanza bene tra una “corona corruttibile” e una “incorruttibile”, ritenendo che sia precisamente quest’ultima a rappresentare l’orizzonte all’interno del quale siamo chiamati a lottare, a batterci, per conquistare anche le corone “corruttibili”. L’impegno, l’allenamento quotidiano, la dura fatica che stanno dietro al successo di un grande campione sono un grande valore in sé e un’importante testimonianza per tutti, ma non debbono distrarci dalle cose che contano per davvero. Il più delle volte infatti è proprio la consapevolezza ben coltivata della differenza tra queste e, poniamo, una medaglia olimpica a rappresentare il tratto che dà all’atleta quella grandezza “umana” che esalta ancora di più la sua grandezza “sportiva”.

Detto in altre parole e molto banalmente, si tratta soprattutto di non confondere mai lo sport con la vita. E’ lo sport a essere una metafora della vita non viceversa. Per quanto bello e avvincente esso sia, lo sport ha insomma a che fare con corone “corruttibili”, non con l’essenziale delle nostre vite. E questo vale sia per gli atleti che per gli appassionati. Lo sport possiede una potente capacità evocativa del vissuto umano, ma, se diventa tutto, potrebbe rinchiudere chi lo pratica e anche chi semplicemente lo segue in un universo falso e falsificante. 

Quanto al Dio dei cristiani, egli chiede a tutti di perseguire le corone “incorruttibili” con la stessa passione e la stessa perseveranza con le quali gli atleti si impegnano e lottano meritoriamente per le corone “corruttibili”; guarda di sicuro con indulgenza la nostra esaltazione per una vittoria sportiva; ma ciò che non vuole e non tollera, ciò che veramente ci espone al rischio di “essere squalificati” è che lo sport diventi a sua volta una religione, magari al servizio di idoli potenti come il denaro, il successo, il potere e (perché no?) un corpo ben modellato e in salute.

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