Tournanti #5

Quel Tour de France di Renato Marchetti

Marco Pastonesi

Nel 1975 l'altoatesino partecipò alla sua prima e unica Grande Boucle: "Prima i Pirenei, poi il Massiccio Centrale, infine le Alpi. Tappe lunghe, caldo asfissiante. Ma stavo bene e faticavo meno"

Tour de France 1975: 3.999 chilometri, per la prima volta la maglia a pois per identificare il leader della classifica della montagna, Eddy Merckx sconfitto prima da uno spettatore che lo colpì sul Puy de Dome, poi dagli antidolorifici, infine da Bernard Thevenet. Fu, quello, il primo e ultimo Tour de France di Renato Marchetti: “Mai stato così bene, mai così in forma. Facevo fatica, ma quando hai la condizione giusta – salute, condizione, morale – fai meno fatica. Quasi mi divertivo”.

Aveva 28 anni, Marchetti, la metà quando fu folgorato dalla bicicletta: “Andai a fare un giro con un amico. Lui su una bici da corsa, una Galetti a tre cambi, io su una da donna, quella di mia madre. Scalammo il Palade, percorremmo la Val di Sole fin quasi al Passo del Tonale, poi indietro, dalla mattina alla sera, più di un centinaio di chilometri, mangiando le mele dei contadini e bevendo acqua alle fontane. In salita, nonostante la bici da donna, lo staccavo. E mi venne voglia di provare, continuare, gareggiare”.

Padre ferroviere, mamma in magazzini della frutta, terzo di tre fratelli, altoatesino di Vilpiano di Terlano, villaggio tra Bolzano e Merano sulla strada del vino, scuola (“Non una grande voglia”) fino alla terza industriale (“Non finita”), molto più meccanico (“Prima apprendista, poi in un garage”) che corridore (“Non avevo tempo per allenarmi”), finché trovò un compromesso (“Il titolare di una carrozzeria, appassionato di ciclismo, mi lasciava libera mezza giornata la settimana”), altrimenti doveva fare gli straordinari (“Mi alzavo alle 5, pedalavo un paio d’ore, tornavo a casa e poi andavo a lavorare”).

Esordiente, allievo, dilettante…: “La prima corsa a Tione, avevo una bici molto più grande di quella adatta a me, non sapevo come comportarmi, così attaccavo e andavo in fuga, ripreso, riattaccavo e ritornavo in fuga, alla fine arrivai in gruppo, mi ero divertito ed ero contento”. Poche vittorie, ma buone: “Nel 1970 il Giro della Bolghera, internazionale. Nel 1971 passai alla Orlandini di Reggio Emilia, nove vittorie, il quarto più plurivittorioso d’Italia, il primo Francesco Moser con 18”. E fu proprio Moser a volerlo professionista con lui: “Nel 1973, alla Filotex, gregario. Tirare, chiudere, inseguire, coprire, spingere, prendere e portare acqua. Gli assalti ai bar, ‘paga Torriani!’ spiegavamo ai baristi, che forse ci credevano o forse erano semplicemente contenti di contribuire al nostro Giro d’Italia. Non esistevano lattine, c’erano solo bottiglie di vetro, le stappavamo sulla pipa del manubrio o con un colpo sulla pedaliera, alla peggio con i denti, poi ci organizzammo con un apribottiglia in tasca”. Quel Tour de France: “Lo avevamo preparato partecipando al Midi Libre e al Delfinato. Si cominciò benissimo, meglio di così non si poteva. Nel cronoprologo di Charleroi, sei chilometri e passa, Moser stabilì il miglior tempo, 2” meno di Eddy Merckx, conquistò la maglia gialla di leader della classifica generale, e Merckx ci rimase malissimo. Mantenemmo la maglia gialla quasi una settimana, finché nella tappa a cronometro Merckx conquistò finalmente il primato. Moser avrebbe vinto anche una tappa e si sarebbe classificato settimo. Io trentanovesimo, neanche male. Prima i Pirenei, poi il Massiccio Centrale, infine le Alpi. Tappe lunghe, caldo asfissiante. Ma stavo bene e faticavo meno”.

Otto anni da professionista, sempre con Moser, prima alla Filotex, poi alla Sanson: “Una vittoria, in Svezia, una specie di Vasaloppet ma in bici, 300 chilometri a cronometro in squadre di tre corridori, Moser, Claudio Bortolotto e io, e a gareggiare tutti insieme, dai professionisti agli amatori. Aereo da Milano a Stoccolma, scalo a Zurigo, il tempo per mangiare, finito di mangiare l’aereo era già partito, uno degli organizzatori affittò un aerotaxi che ci portò a Stoccolma e rimase tre giorni a nostra disposizione per riportarci in Italia. In quella corsa si partiva alle sette di sera, noi per primi, si arrivava alle tre di notte, ma c’era sempre la luce. Gli ultimi 10 chilometri mi staccai, ma il tempo veniva preso solo sul primo che tagliava il traguardo, cioè Francesco, e battemmo il record detenuto dai fratelli svedesi Pettersson. In premio un televisore, un giradischi e tre milioni di lire divisi per tre”.

Marchetti, 78 anni, pedala ancora: “Un giorno sì e un giorno no, da solo o con gli amici, quando passa un gruppetto mi metto in scia per qualche chilometro, poi proseguo del mio passo. La bicicletta è il mio elisir”.

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