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L'editoriale dell'elefantino

Un torneo senza gloria sportiva e avvilimento della sconfitta? Che palle

Giuliano Ferrara

Il cultore della pedagogia bonaria non afferra come possa esistere ancora una cosa come il torneo. Fra break e lungolinea

Le telecronache del tennis, in particolare ma non solo quelle con la voce e la competenza sorvegliata di Elena Pero, sono un capolavoro del genere, direi che sono perfette. Le retoriche sul tennis, su Wimbledon nel caso di specie, sono anche quelle capolavori di buona pedagogia, che possono anche dar fastidio per la loro impeccabilità, con il re, la mamma, la corte, il team, il rispetto e la mano oltre la rete e tutto quello che è necessario per rifornirci di concetti e concettini basici: quanto è bello giocare all’aria aperta, che splendore la durata infinita del gioco che una volta non prevedeva nemmeno il tie break e si distendeva a sera su più giornate, che ipnosi la pallina gialla che una volta era bianca, il suo battito vagamente cardiaco quando scatta verso gli angoli del campo, quando viene riscattata in difesa in luoghi geometrici, come il lungolinea, che anche il profano scruta come tecnicamente impossibili, che godimento la velocità o quel tocco di interdizione e di invito alla corsa a rete, pura pittura nello spazio vuoto, della palla corta. Il tutto davanti a un pubblico che deve compiere l’inquietante miracolo di tifare e poi improvvisamente tacere in omaggio alla divinità della concentrazione, come se al Maradona prima dell’assist e del gol la gente imbufalita e tremante si mettesse tranquilla e innestasse la sordina a trombe, tromboni, corni e petardi. Ma sopra ogni altra cosa o sensazione, che follia estenuante e misteriosa è quella del punteggio, il vero movimento mentale, aritmeticamente incongruo, che dà al gioco il suo senso e il suo destino, i punti misurati sulla quindicina due volte, poi sul pari si sale a quaranta, e la sospensione emotiva del deuce, quando si deve superare per due deliranti occasioni una parità che può essere fatale a chi è al servizio, con il break, questo fantastico strappare, rubare, il vantaggio all’avversario.

Ora il mondo si è diviso di nuovo in due. Da una parte chi stappa lo champagne e proietta la gioia del tappo volante sul campo, alle spalle di un giocatore, subito ripreso dal Dio della sedia, dall’altra il pedagogo severo che si inquieta per lo spirito di competizione e rompe le palle e le palline domandandosi se sia educativo un gioco in cui si vince o si perde, in cui la posta in palio è anche finanziariamente alta, in cui il cervello e il cuore e i tendini degli atleti e delle atlete sono al servizio di un esito che non prevede mai il pareggio. E via con le stucchevolezze e le scemenze. Così come si invoca una poesia democratica, che notoriamente non esiste, si cerca un torneo in cui non esistano la gloria sportiva e l’avvilimento della sconfitta.


Così come si vorrebbe un’altra cosa che non esiste, la memoria condivisa, si esorta alla condivisione di un risultato che atterra e suscita, che affanna e che consola, e abbatte il nemico in calzoncini nella logica che dice con estrema e abbacinante chiarezza come la tua morte sia la mia vita, e l’opposto simmetrico. Il cultore della pedagogia bonaria non afferra come possa esistere ancora nel moderno una cosa antica come il torneo, ho sentito con le mie orecchie alla radio che è preferibile il basket, con tutti quei canestri, quel brodo di punteggio in evoluzione, con quella logica di squadra e i ruoli ben predisposti e chiari, uno sport meno tribunizio, meno imperiale, meno medievale, una cosa che non prevede il pollice verso e il pollice alzato. Si intuisce un’antipatia per la competizione pura, per il primato personale, che la dice lunga, anzi lunghissima e pallosa, su questa mielosa astrazione di un mondo condiviso in cui la sorte auspicata per la personalità e per il talento è quella di sparire dietro una cortina fumogena di luoghi comuni. Forse “il papa di Wimbledon”, invenzione linguistica di Gianni Clerici, è un’iperbole sgradita, ma il pareggio condiviso decretato da un’assemblea di buoni cittadini e di educatori sociali renderebbe di una noia esiziale quel gioco di fenomeni che per rispettarsi hanno bisogno di essere sicuri di potersi abbattere l’un l’altro, l’un contro l’altro. Consiglio al ministro Valditara di imporre la presa di memoria, condivisa o non condivisa, dei versi finali del Manzoni napoleonico: “Tu dalle stanche ceneri / sperdi ogni ria parola: / il Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola / sulla deserta coltrice / accanto a lui posò”. Semplice, no?

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.