
Simone Fraccaro
Tournanti #3
Quel Tour de France di Simone Fraccaro
Cinquant'anni fa la vittoria di Bernard Thevenet, la crisi di Eddy Merckx e il debutto alla Grande Boucle dell'italiano, gregario di Felice Gimondi
Quel Tour di 50 anni fa. Simone Fraccaro aveva 23 anni, era al suo secondo anno da professionista, correva da gregario di Felice Gimondi: “Non una gara ma una guerra. Una guerra lunga, quasi un mese, dal 26 giugno al 20 luglio. Una guerra dura, 3.999 chilometri, 140 corridori, a finirla poco più della metà. Una guerra di pianura e montagne, tutte, Pirenei, Massiccio Centrale, Alpi. Una guerra a pedali, Bernard Thevenet, magrissimo, trasparente, il più forte di tutti in salita, Eddy Merckx che allora lo attaccava soprattutto in discesa, e il gruppo dietro, su alla disperazione e giù alla morte, sembravamo matti. Gimondi andava ancora forte, poteva contare su una bella squadra, era ancora il tempo in cui le spinte fra corridori non erano vietate dunque consentite, e lui aveva la mano pesante. Invece Merckx no, faceva sgobbare i suoi gregari, ma non l’ho mai visto attaccarsi o chiedere una spinta”.
Quel Tour di 50 anni fa. Simone Fraccaro n’è rimasto scolpito: “Alberghi spesso fatiscenti. Caldo, sete, fontane, chi le trovava ci saltava dentro. Trasferimenti in pullman dagli arrivi alle partenze, un giorno non ne potevo più, domandai a quanti chilometri fosse il nostro hotel, mi risposero 15, allora me li faccio in bici, annunciai, non mi avevano spiegato che quei 15 chilometri erano tutti in salita, giunsi stravolto chiedendomi se non fossi diventato matto. Soprattutto all’inizio il mio compito era aiutare Rik van Linden, il nostro velocista, che in certe salite metteva i piedi a terra. Gli ultimi giorni Giancarlo Ferretti, il nostro direttore sportivo, delegò me e Kociss Rodriguez, secondo lui quelli ancora con energie, ad assistere Gimondi. E per stare accanto a Gimondi, ogni giorno guadagnavo 15-20 posizioni in classifica. Ero 110°, arrivai 35°, un altro paio di tappe e sarei finito fra i primi 10”.
Quel Tour di 50 anni fa. Simone Fraccaro se lo ricorda a memoria: “In due tappe, quelle di Pra Loup e Morzine-Avoriaz, gli organizzatori allungarono il tempo massimo, altrimenti sarebbe stata una strage. Proprio nella tappa di Pra Loup, dopo il Col d’Allos, il quarto dei cinque gran premi della montagna, Merckx attaccò in discesa, dietro di lui si gettarono i primi, subito dopo noi a un minuto, in una curva vidi due strisciate di gomma, gente che guardava nel vuoto e Piero Piazzalunga, il nostro meccanico, che si agitava in mezzo alla strada. L’ammiraglia guidata da Ferretti era precipitata in un burrone. Piazzalunga si era salvato perché – la portiera posteriore delle ammiraglie, Peugeot fornite dall’organizzazione, era stata sostituita da una catenella per rendere più rapido il lavoro del meccanico – era volato fuori dalla macchina, finito su un albero e tirato giù da un ramo. Anche Ferretti si salvò. Due miracolati. Kociss Rodriguez proseguì, imperterrito. Io rimasi lì, fermo 5-6’, sbalordito, sconvolto, imbambolato davanti al sottilissimo confine fra vita e morte. E proprio nella tappa di Morzine-Avoriaz, dopo la Madeleine, il primo dei quattro gran premi della montagna (ma c’erano altre sei montagne, anche senza gran premi), mi trovai in fuga con Merckx. Lui si era lanciato in discesa a tomba aperta, io dietro di lui rischiando la vita. Lui mi chiedeva il cambio, io non potevo, lui alzava la voce, io aprivo le braccia, lui si arrabbiava, io respiravo. Fummo ripresi dal gruppetto dei migliori, una dozzina, io l’unico senza titoli. Fu la sola volta in cui sentii Merckx insultare Felix Levitan, il patron della corsa, che l’aveva resa così dura. A quel punto scattai. Volevo che anche i campioni soffrissero almeno per un giorno quello che noi gregari pativamo per una vita intera. A Gimondi andava bene anche che io avessi osato attaccare: lui era convinto che quando il gioco si faceva duro, gli altri finivano con il saltare e lui cominciava a emergere”.
Quel Tour di 50 anni fa. Simone Fraccaro, padre contadino, due fratelli, Adolfo e Giorgio, anche loro corridori, più dotato il secondo del primo: “Merckx non voleva perdere. Il penultimo giorno, primo Van Linden, rosicchiò 16” a Thevenet, ma gli restavano 2’47”. I francesi, arrivando al traguardo, cantavano in coro Aux Champs-Elysées, aux Champs-Elysées, au soleil, sous la pluie, a midi o a minuit, felici e contenti come se tornassero sani e salvi da una guerra mondiale. L’ultimo giorno, circuito dei Campi Elisi a Parigi, una passerella di 163 chilometri, altro che passerella, pronti-via Merckx aveva già 100 metri di vantaggio, così la gara fu guerra fino alla fine, Merckx scatenato, Thevenet incollato alla sua ruota, staccato il gruppo tirato dalla squadra di Thevenet che non voleva lasciare da solo il capitano, noi tutti in fila indiana, e non riuscivamo a prenderli. Ricordo che forai e faticai a rientrare, ricordo che gli spettatori erano un muro e quelli in decima-quindicesima fila guardavano la corsa con una specie di periscopio fatto a tubi e specchi, ricordo che un giorno incontrai Thevenet e gli chiesi proprio di quel giorno, lui mi raccontò che si vergognava di rimanere sempre a ruota di Merckx, così a un certo punto provò a dargli un cambio, neanche il tempo di farlo e Merckx era già scattato dall’altra parte della carreggiata”.


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