
Tournanti #2
Quel Tour de France gregario di Romano Tumellero
Il vicentino corse la Grande Boucel del 1970: "Un caldo insopportabile. Di 10 compagni, arrivammo in quattro. Io novantatreesimo dei 100 arrivati dei 150 partiti, a quasi tre ore dal primo, Eddy Merckx"
Tour de France 1970. Il primo e ultimo di Romano Tumellero: “Avevo 22 anni, ero al mio secondo anno da professionista, correvo per la Ferretti, metà italiana e metà fra danesi e belgi, facevo il gregario. Per la classifica avevamo Gosta Pettersson, per le volate Albert Van Vlierberghe. E io dovevo aiutarli. Tappe e semitappe, Pirenei e Alpi, un caldo insopportabile. Di 10 compagni, arrivammo in quattro. Io novantatreesimo dei 100 arrivati dei 150 partiti, a quasi tre ore dal primo, neanche a dirlo, Eddy Merckx. Però ero contentissimo. Perché ce l’avevo fatta correndo sempre a testa bassa. Due volte fra i primi 10 di tappa, a quel tempo il piazzamento non significava nulla, per me contava il primo posto per essere felice, il secondo per essere infelice, il terzo per essere felice a metà. Adesso è diverso, due volte fra i primi 10 è qualcosa, è tanto, è un ricordo, anche un vanto”.
Vicentino di Arcugnano, origini contadine, padre muratore, madre infermiera e poi in un cotonificio, due sorelle e un fratello maggiori, lui il quarto e ultimo figlio, terza media poi apprendista meccanico, serali abbandonate davanti alla possibilità di dedicarsi al ciclismo: “Dalle nostre parti c’è una base Nato, a quel tempo organizzavano corse libere, anche una cronoscalata a coppie, un americano e un italiano… Pedalavo nelle cicloturistiche, a un raduno a Novara un cugino corridore mi promise la sua bici, gli dissi che i miei genitori non mi avrebbero mai permesso di correre, lui insistette, quando avrai la bici – mi spiegò – sarà tutto diverso, mi spedì la bici, azzurra, da corsa, un po’ grande, ma mi sembrava bellissima. Aveva ragione lui: sarebbe stato tutto diverso, a cominciare dai miei genitori, che mi lasciarono fare”.
Era Alfredo Martini il direttore sportivo di Tumellero in quel Tour: “Stavo facendo il servizio militare nella compagnia atleti a Milano, quando i miei genitori mi dissero che a casa era arrivata una lettera, quella della Ferretti. Andai a Monza, c’erano Martini e Fiorenzo Magni, lessi le condizioni, la cifra di ingaggio per un anno, che poi erano 10 mesi, e firmai. Non c’erano agenti né procuratori, non c’erano discussioni né contrattazioni. Se ti andava bene, firmavi, se no, no. Firmai. Martini, lo avrei scoperto facendo confronti successivi, era speciale: aveva per tutti, anche per i gregari, un’attenzione particolare. Chiedeva, ascoltava, osservava, incoraggiava. Per tutti gli altri invece noi gregari eravamo la ciurma: stare davanti, menare, chiudere buchi, era tutto quello che dovevamo fare, senza tanti commenti”.
Una carriera lunga cinque anni illuminata da quattro vittorie: Coppa Sabatini e Trofeo Cougnet nel 1969, tappa al Giro di Romandia e al Giro d’Italia nel 1971. “E’ successo sempre tutto per caso. Avevo doti di finisseur, ma nessuno ha mai cercato di valorizzarle. Nelle giornate libere, seguivo l’istinto, facevo di testa mia. In Romandia c’era Michele Dancelli da solo davanti, scattai all’ultimo chilometro, mentre lo saltavo a velocità doppia mi pregò di aspettarlo, gli risposi di sì, ma ormai avevo già 10 metri di vantaggio. Stessa azione al Giro, scattando all’ultimo chilometro, ma stavolta davanti non c’era nessuno. Se fossi stato meno… polentone, se mi fossi chiamato Van Tumellero… avrei vinto di più. Come nel Campionato di Zurigo, ero in fuga, mi dissero di non tirare per facilitare il rientro di due compagni di squadra, Van Springel e Swerts, i due rientrarono, poi Van Springel scattò e vinse, io arrivai secondo, poi intervistato dalla Gazzetta dello Sport dissi quello che era successo e l’anno successivo non fui confermato. Mai dire la verità”.
Tumellero, ci racconti qualche storia vera: “Una volta, alla Parigi-Nizza, sulla Croix-de-Fer mi trovai in fuga con Rik Van Looy, ma era una fuga dalla parte sbagliata, in coda alla corsa. Van Looy era agli ultimi fuochi della sua carriera, ormai più brace che fuoco. Mi squadrò, mi inquadrò, capì che ne avevo poca, allora mi fece un gesto, come dire ‘ci penso io’, si mise davanti, scandì il passo e arrivammo al traguardo entro il tempo massimo. Un’altra volta, in ritiro con la Molteni, da una parte Merckx, dall’altra Marino Basso, Basso era invidioso di Merckx, la prima mattina arrivò tardi all’appuntamento e Merckx aspettò, la seconda mattina arrivò ancora tardi e Merckx si innervosì, la terza mattina arrivò sempre tardi e Merckx se n’era già andato con i suoi gregari. Un’altra volta ancora, Giro d’Italia del 1969, tappa di Terracina, partii in contropiede, sul lungomare sbattei contro il vento, fui raggiunto da Claudio Michelotto e Wladimiro Panizza, perdemmo tempo a parlare, fummo inghiottiti da Merckx e gli altri, una foto mi ritrae mentre tagliavo il traguardo, settimo, e guardavo la tribuna che stava crollando, quel giorno, terribile, morì schiacciato un bambino”.