È anche dall'avversario che si giudica un tennista

Giorgia Mecca

Sinner e Alcaraz, il numero uno e l’unico in grado di batterlo, sono necessari l’uno all’altro. Viaggio tra le grandi rivalità della racchetta

Sudtirolo contro profondissima Spagna. Mediterraneo e Dolomiti. Da una parte un cappellino sempre in testa, dall’altra t-shirt smanicate. Emozioni nascoste sotto la visiera contro muscoli che scalpitano, vorrebbero uscire dagli indumenti. E’ anche da questi particolari, estetici, che si giudica una rivalità. Sono fotogenici, uno contro l’altro. Jannik Sinner e Carlos Alcaraz. Il numero uno del mondo e l’unico giocatore in grado di batterlo. La loro rivalità è diventata un neologismo, Sincaraz, rarità che succede solo con le grandi storie di sport


Hanno 23 e 21 anni, al Roland Garros saranno rispettivamente la testa di serie numero uno e numero due del seeding. Possono incontrarsi soltanto in finale, che sarebbe la loro prima sfida all’ultimo step di un torneo del Grande Slam. In un’intervista rilasciata al quotidiano sportivo francese L’Equipe, Rafa Nadal, che per la prima volta dopo vent’anni non sarà a Parigi da giocatore ma da leggenda di cui onorare la memoria e i titoli conquistati (quattordici), ha detto: “Oggi sembrano esserci soltanto due giocatori capaci di avere la solidità necessaria per fare la differenza. Sinner e Alcaraz”. Tutto il resto del mondo fuori. Nelle stesse ore anche Novak Djokovic ha ribadito il concetto: “Le superstar di oggi sono loro due”. Nel 2024 si sono spartiti i quattro eventi principali, i tornei dello Slam. Nel 2025 non ci sono giocatori più favoriti di loro per il bis. 


I tennisti da soli non esistono. Proprio come avviene dentro un ring, c’è bisogno dell’altro, l’avversario, il nemico da mandare al tappeto. La regola è crudele ed elementare, è la prima cosa che Jimmy Connors ha imparato a proposito del tennis e della vita: “Uccidi o vieni ucciso”. Glielo ha insegnato sua mamma Gloria, non esistono zone grigie, a volte è rassicurante. E’ l’altro la misura di tutte le cose, la risposta che sarà in grado di dare al tuo servizio determinerà il valore del tuo servizio. E viceversa, e così via. Quanto c’è del top spin di Nadal nei rovesci lungolinea di Roger Federer? Così come gli errori, anche i tiri vincenti in una partita sono forzati, conseguenti. Non esistono colpi eseguiti in purezza, il rumore che fa la pallina quando esce dalla racchetta di Sinner è condizionato, sporcato, da chi c’è dall’altra parte della rete. Esattamente come tutto il resto. 
 
Cosa sarebbe accaduto se Borg non si fosse ritirato? chiede un giorno il giornalista Tim Adams a John McEnroe. L’americano, finalmente numero uno del mondo, ci pensa un attimo e poi risponde: “Sarebbe stato un bello spettacolo. Invece mi sono ritrovato un po’ perso. C’era quel vuoto e avevo come l’impressione che, da allora in poi, avrei dovuto fare tutto da solo per trovare la mia forza e la mia intensità”. Anni dopo domandano a Venus Williams: “Quanti Slam avresti vinto se non ci fosse stata tua sorella Serena?”.  Nessuno, risponde lei e ne è convinta. “Serena è il mio modello, il mio stimolo, il mio tutto”. 
 
La prima volta che Sinner e Alcaraz si sono affrontati nel circuito Atp era il 2021, secondo turno del torneo di Parigi Bercy, cemento indoor. Lo sponsor di entrambi aveva assegnato la stessa t-shirt sia a uno che all’altro (errore che Nike avrebbe cercato di non commettere mai più, i rivali non devono somigliarsi in niente, almeno in apparenza). Riguardando quel match ci si rende conto di corpi in trasformazione e facce adolescenti, drop shot da una parte e solidità sulla linea di fondo dall’altra. Le basi erano quelle di oggi, l’istinto made in Spain contro la costruzione del nord-est. Nel frattempo, però, in questi quattro anni il tennis conosciuto fin a quel momento è cambiato e sono stati proprio loro gli artefici di una rivoluzione che ha costretto il tennis ad adottare una marcia in più e in cui, al momento, nessun altro a parte loro riesce a sopravvivere senza andare fuori giri. “Con Sinner e Alcaraz il tennis ha smesso di essere uno sport di difesa. Il novanta per cento del loro gioco è gioco di attacco”, ha detto Sasha Zverev, il primo degli esclusi dal pianeta Sincaraz, abitato da due persone soltanto. Casper Ruud un giorno ha detto che è come giocare contro un muro, anzi peggio, perché i muri di solito non ti colpiscono a 100 miglia orarie. 
 
“Tu sei la seconda persona più importante dentro un campo da tennis”, sostiene Craig O’Shannessy analista e stratega che lavora tra gli altri anche per Wimbledon, la Federtennis, il New York Times (con un passato nel team di Novak Djokovic e di Matteo Berrettini). I tennisti sono convinti che durante un match tutto ruoti intorno a loro, non è così secondo O’ Shannessy. La miglior strategia per vincere una partita non è mettere in pratica il tuo Piano A, ma fare in modo che chi ti sta di fronte sia costretto ad adottare il piano B o, nel migliore dei mondi possibili, il piano C. 
 
E’ l’altro il centro dell’universo, anche in uno sport egoista ed egoriferito come il tennis. Non sei tu la causa e la conseguenza di ciò che avviene durante un incontro, ma l’effetto che ha su di te il gioco dell’altro. 
Luglio 2019. A Wimbledon si sta per giocare la sfida numero 40 tra Roger Federer e Rafa Nadal. The last dance. Anche se nessuno può saperlo è una sensazione che attraversa chiunque, sarà la loro ultima sfida. Quindici anni dopo, per prepararsi alla semifinale, lo svizzero non discute di servizi, rovesci o di tattica. A Ivan Ljubicic, il suo allenatore in seconda, chiede una cosa soltanto e gliela chiede con una tenerezza che fa quasi impressione: “Devi convincermi che sono più forte di lui, devi convincermi che sono migliore di lui”. Sono gli avversari a completare i giocatori, a fargli scoprire la resistenza, la frustrazione, la concentrazione, la cattiveria. Nessuno si salva o soccombe da solo. 
 
Senza una sorella come Venus, Serena non avrebbe mai scoperto quanto può portarti lontano l’invidia, la gelosia, il rancore. Anni dopo, senza Maria Sharapova, la nemica perfetta, non avrebbe mai scoperto i miracoli della rabbia. Dopo la finale persa a Wimbledon 2004, l’americana dice a una sua amica: “Piuttosto mi faccio cavare entrambi gli occhi ma non perderò mai più contro quella stronza”. Certo, l’etichetta prevederebbe una maggiore educazione e un atteggiamento diverso nei confronti della sconfitta, ma ci si sofferma sempre troppo poco sulla tenuta mentale che dimostrano di avere i tennisti dopo le finali perse. Nel momento del successo dell’avversario che coincide con il proprio fallimento, loro, presi a schiaffi, rimangono impassibili, devono congratularsi con il vincitore, incassare i complimenti di circostanza da parte del campione, prepararsi un discorso che sia almeno decente. Il peggiore dei due che deve inchinarsi al migliore dei due: gesti bianchi e anche un po’ crudeli. 
 
La storia delle rivalità è attraversata da sentimenti ambigui: non è mai solo odio e non è mai solo affetto; c’è riconoscenza, adrenalina, rispetto. C’è il desiderio di vedere l’altro andare ko, guardare chi ti sta di fronte esultarti in faccia con le mani che chiedono la collaborazione del pubblico, come se fossimo dentro un cinema, e provare il desiderio di scavalcare la rete e tirargli un pugno. C’è però anche una sorta di euforia eteroprodotta, sentirsi parte di uno spettacolo più grande di te, la consapevolezza di essere aggrappato alla violenza del gioco altrui, che gli highlights che sei riuscito a produrre non dipendano soltanto dal tuo braccio ma da un braccio di ferro con il tuo nemico, la sensazione di non avere scampo ma non starci nemmeno troppo male in mezzo a quegli scambi. Le regole dell’attrazione e della sopravvivenza. 
 
Miami 2023, semifinale. Alcaraz e Sinner somigliano sempre di più ai campioni che sono oggi. Nelle foto prima del match lo spagnolo sorride mostrando tutti i denti, Jannik è troppo concentrato per farlo. Ogni colpo made in Spain è accompagnato da un grido, nella metà campo dell’azzurro regna il silenzio assoluto. Dopo 34 minuti di partita Sinner è in vantaggio 4 a 2. Serve lui, il primo punto è dell’avversario. Sullo 0-15 accade un capolavoro. Uno scambio di 24 colpi tra cui discese a rete, dritti che avrebbero potuto essere vincenti contro chiunque altro, difese che diventano attacchi, un passante di rovescio che lascia Alcaraz disteso per terra e lo stadio tutto in piedi per Sinner, o per ciò che diventa Sinner quando si trova di fronte Carlos Alcaraz. Dodici mesi dopo, sempre Sunshine Double, questa volta Indian Wells. E’ il 2024, Alcaraz è già stato il numero uno del mondo, Sinner sta per diventarlo. E’ reduce da diciannove vittorie consecutive, tra cui il primo titolo in un torneo dello Slam (gli Australian Open). E’ il giocatore più in forma del momento quando affronta la testa di serie numero 2. Vince il primo set 6-1, nel secondo lo spagnolo è in vantaggio 3 a 1 con il servizio a disposizione quando si verifica, con la complicità di entrambi, un altro capolavoro. Tutti e due sottorete, magie e contromagie, Sinner che scivola sul cemento e rischia di farsi male per recuperare la pallina con una postura del corpo che è tutto tranne che naturale (da notare che si tratta del primo quindici del game, un punto considerato non cruciale). Qualunque cosa significa questa Sincaraz è proprio grazie a lei se trova il coraggio di buttare il suo avversario fuori dal campo mentre il telecronista statunitense esclama: “Questi due non possono fare a meno di dare spettacolo”. Alla fine del punto i giocatori si guardano qualche secondo negli occhi e scoppiano a ridere. Eccola, la riconoscenza, quelle parole sottointese: Grazie, perché ogni volta tiri fuori il meglio di me. 
 
Pete Sampras annuncia il suo ritiro poco prima dell’inizio degli Us Open del 2003. Quando apprende la notizia in conferenza stampa Andre Agassi prova la stessa sensazione provata da John Mc Enroe vent’anni prima dopo l’addio di Borg: nessun sollievo, solo una profonda solitudine. Scrive così nell’autobiografia Open: “La nostra rivalità è stata uno dei punti di riferimento della mia carriera. Perdere con Pete mi ha provocato un dolore enorme, ma alla lunga mi ha reso anche più forte. Se lo avessi battuto più spesso, se fosse comparso in una generazione diversa, il mio palmares sarebbe migliore e potrei essere ricordato come un tennista migliore. Ma varrei di meno”. La domanda è legittima: la sua sarebbe stata la miglior risposta dell’epoca se non avesse avuto come avversario principale il miglior servizio della sua epoca?

  

Spesso i giocatori in conferenza stampa affermano che l’obiettivo principale è quello di essere la miglior versione di sé stessi, fare il proprio gioco. Non è vero, non basta. Il proprio gioco da solo non esiste, è sempre imbastardito e impreziosito dal gioco dell’altro. E l’altro ti circonda, ti sovrasta, devi farci i conti, l’altro è un pensiero fisso e se così non è vuol dire che c’è un problema. Rafa Nadal non allenava il dritto cercando di esasperare la rotazione per andare a finire nella Hall of Fame, allenava il dritto per cercare di dare il maggior fastidio possibile a Roger Federer. Tutto ciò che si fa durante una sessione di allenamento dentro un campo da tennis lo si fa per il Nemico che ti sei dato e che spesso rimane lo stesso dall’inizio alla fine della tua carriera. Quando Simone Vagnozzi tre anni fa è diventato il coach di Jannik Sinner in cima alla lista degli obiettivi non c’erano questioni tattiche o di stile, ma un tema molto più pragmatico: trovare il modo di battere Daniil Medvedev. Dopo Medvedev, Djokovic, dopo Djokovic Alcaraz. 
 
Martina Navratilova e Chris Evert tra il 1973 e il 1988 hanno giocato contro ottanta volte, la rivalità più prolifica della storia del tennis. Gli head to head mostrano Navratilova in vantaggio di 43 a 37. Erano amiche prima di smettere di esserlo per necessità. “Le qualità che fanno un campione sono tutte cattive. Se pensi agli altri perdi”, questo il leit motiv con cui era cresciuta Evert, fidanzatina d’America e poi moglie di Jimmy Connors, quello dell’altro leit motiv che accompagna certe carriere: uccidi o vieni ucciso. 
Sono una il contrario dell’altra, una non scende mai in campo senza orecchini e orpelli tra i capelli, America’s sweetheart appunto, l’altra segna l’arrivo dell’atletismo nel tennis, dichiaratamente omosessuale (un giorno alla domanda se fosse apertamente omosessuale rispose sarcastica “apertamente invece che chiusamente?”). Certo, ci vuole anche un po’ di fortuna perché sfide del genere abbiano il modo di crescere. Ci vogliono il posto giusto e il momento giusto, personalità opposte, stili di gioco differenti. Ci vuole talento, e che il talento di una si lasci plasmare dal talento dell’altra. 
La prima volta che Evert saluta Navratilova, la tennista di Praga sente un nodo in gola. “Oddio, mi ha detto ciao”. Il primo incontro è nel 1973, vince l’americana 7-6, 6-3. La sconfitta si sente sconfitta soltanto a metà. Il primo sentimento è di gratitudine è felice di aver condiviso il campo con una giocatrice del genere. Chris Evert è cordiale perché non la teme. Poi passano i mesi, gli anni, spesso rimangono le uniche due giocatrici dentro gli spogliatoi nelle fasi finali dei tornei. 
 I sentimenti però ben presto si confondono. Martina è stanca di perdere, la mentore diventa un bersaglio da colpire. Si trasforma in una ossessione di Martina durante gli allenamenti, è lo stimolo che la spinge a giocare una pallina in più piuttosto che una pallina in meno. 
L’agonismo si nutre di irriverenza. Chris comincia ad avere paura. 
Si allontanano. Non puoi essere amica di chi ti ha mandata al tappeto e cercherà di farlo per tutta la sua carriera. Non puoi essere amica di chi desideri vedere in lacrime dopo il match point. Non puoi avere amici se sei cresciuto in un mondo in cui l’agonismo coincide con il desiderio ben nascosto di prevaricazione. E non è un caso che i tennisti, quasi tutti, detestino perdere più di quanto amino vincere. Fare male piuttosto che farsi del bene. 
 
Provate a chiedere a Federer e Nadal quanto si sentissero amici prima e dopo le finali di Wimbledon 2007 e 2008, quanto fossero felici di occupare gli stessi centimetri quadrati di campo durante la cerimonia di premiazione. Oggi pensando alla Fedal ci vengono in mente le lacrime condivise, le mani che si stringono, le risate, la complicità dell’ultimo doppio durante la Laver Cup del 2022. Ci vengono in mente le belle parole di uno nei confronti dell’altro, i complimenti, le congratulazioni, gli abbracci. Tutto vero, di sicuro, ma tutto conquistato quando il nome di entrambi era già diventato leggenda. E’ sbagliato confondere il fair play (e qualche campagna pubblicitaria particolarmente riuscita) con l’amicizia, che è ciò che sia Sinner che Alcaraz provano a ripetere da mesi agli ingenui che li vorrebbero best friends. Per il bene del tennis e dello spettacolo è più utile il rancore che l’affetto. Martina Navratilova e Chris Evert ritorneranno amiche, grandi amiche, ma soltanto quando la guerra dentro il campo sarà finita. 
 
Jannik Sinner sta per festeggiare le sue cinquantadue settimane consecutive in cima al ranking. Carlos Alcaraz ha vinto gli ultimi quattro scontri diretti giocati contro di lui. L’ultimo, in finale agli Internazionali d’Italia, finito 7-6, 6-1 per lo spagnolo. In totale negli head to head il numero due al mondo è vantaggio sette a quattro (a proposito degli head to head, una delle statistiche più importanti per il circuito è interessante una frase che un giorno ha detto Borg: “Io devo convivere con il mio record di 5-3 contro McEnroe. Gli artisti invece non vengono giudicati così severamente. Picasso non aveva un record di vittorie e sconfitte contro Van Gogh”)
 

Alla fine del match al Foro Italico l’azzurro, in conferenza stampa, ha ammesso: “Lui sa fare più cose di me”. Pochi minuti dopo il nuovo campione del Foro Italico ha detto: “Jannik possiede l’aura, il carisma. Contro di lui non posso permettermi gli alti e bassi che mi contraddistinguono di solito. Devo essere la miglior versione di me stesso dall’inizio alla fine”.  Nei tre mesi di assenza dell’italiano dal circuito Alcaraz è stato un giocatore parzialmente svuotato, come se, senza l’altro, senza l’Avversario, avesse lui stesso perso qualcosa di sé.
 

Il comeback effettivo dello spagnolo è coinciso con la ripresa degli allenamenti ufficiali del numero uno. Anche il fiato sul collo fa miracoli. Non si tratta di vincere e basta, ma di vincere contro di lui, proprio contro di lui, dimostrare non di essere il migliore, ma migliore di lui. E’ l’essenza del tennis, trovarsi sempre uno contro l’altro, dover fare i conti non con te stesso ma con chi ti sta di fronte. Si dice spesso che il tennis ti mette a nudo, che è una battaglia interiore dove giochi prima di tutto contro i tuoi fantasmi. Ma non è proprio così, si gioca con l’immagine che l’altro ti rimanda di te stesso, la tua vulnerabilità che si manifesta grazie all’intervento dell’altro. Senza Alcaraz Sinner sarebbe il giocatore più forte del mondo. Senza Sinner Alcaraz sarebbe il giocatore più forte del mondo. 


Sono loro due, insieme e contemporaneamente, a dare vita alla rivalità più bella del tennis e certamente a una delle più affascinanti dello sport in generale. Fantasia contro lucidità. Difese che si trasformano in attacchi. Lampi di genio e concretezza. Drop shot e rincorse. Controllo e incoscienza. Senza il veleno non esisterebbe l’antidoto. Il rumore che fa la pallina di Sinner quando incontra la racchetta non è un assolo, è il risultato di tutti gli scambi precedenti, i suoi rovesci sono causa e conseguenza dei dritti dell’altro. E’ un’orchestra, o forse un duetto. Insieme e contro raggiungono intensità riproducibili soltanto da loro. Compagni di viaggio prima della stretta di mano che li porterà a esiti differenti, prima che la gioia di uno si trasformi nel dolore dell’altro. Quando giocano vorrebbero ammazzarsi a vicenda, la verità è che soltanto quando suonano insieme, ognuno con le armi che gli mette a disposizione l’altro, possono dare vita al più grande spettacolo tennistico contemporaneo. 
 

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