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un cantagiro

Il Giro d'Italia a Napoli, tra canzoni, Angela, il fuoco e il vulcano

Gino Cervi

I corridori che arrivano sul lungomare Caracciolo, le pagine del libro di Antonio Franchini "Il fuoco che ti porti dentro" e la musica di Napoli

Il Giro d’Italia, alla sua sesta tappa, arriva a Napoli, sotto il vulcano. Da giorni la terra trema ai Campi Flegrei e le scosse, di magnitudo variabile tra i 3 e 4.4 gradi, fanno muovere Pozzuoli e dintorni, ma si percepiscono chiaramente anche in alcuni quartieri napoletani, al Vomero, a Posillipo, a Chiaiano e ai Colli Aminei. Dicono che l’epicentro sia identificabile a una profondità dei 2,5 km nella zona dei Pisciarelli, nella conca di Agnano, al bordo dell’antico cratere vulcanico della Solfatara, nell’inquieto sottosuolo dei Campi Flegrei.

 

Uno dei romanzi che più mi sono piaciuti nell’ultimo anno di letture è in buona parte ambientato a Napoli e ha un titolo che rimanda al mondo ctonio e magmatico che in questi giorni fa notizia e anche un po’ paura: Il fuoco che ti porti dentro. Lo ha scritto Antonio Franchini, uno di quei rari autori italiani contemporanei che scrive in un italiano che non sembra tradotto dall’inglese, o da chissà quale altra lingua straniera. Già solo questo potrebbe bastare per uscire dal gruppo. Ma quello che gli fa vincere la corsa è la storia che racconta e l’architettura della sua narrazione.

  

Antonio Franchini, classe 1958, napoletano trapiantato una quarantina d’anni fa a Milano, una bella carriera di scrittore funzionario (per parafrasare un verso di Franco Fortini indirizzato all’amico-antagonista Vittorio Sereni, poeta e dirigente editoriale proprio alla Mondadori, che tra l’altro è stata la casa editrice in cui è cresciuto Franchini), racconta una storia più che privata, intima: quella di sua madre, Angela Izzo. Scrive Franchini verso la fine del libro: "Chi vuole tentare di capire una persona vera essendo consapevole che conoscere veramente non è possibile e che la persona reale gli sfuggirà comunque, può provare a raccontarla come il personaggio di un romanzo, che è poi ciò che tutti siamo, alla fine, a patto di trovare uno che in un romanzo ci metta".

   

Franchini ha raccontato la vita di e con sua madre, una vita che in gran parte assomiglia a una lotta corpo a corpo, e senza esclusione di colpi, contro la donna che lo ha messo al mondo e che, ben presto, scopre di detestare profondamente. Come il sottosuolo dei Campi Flegrei, Angela Rizzo si porta dentro un fuoco, un incendio che non risparmia niente e nessuno. Angela è odiosamente irresistibile e l’autore-figlio la rappresenta plasmando, con una lingua sorvegliata e implacabile, un memorabile ritratto. Lo fa mischiando, come nella migliore letteratura, il tragico e il comico, il privato e il pubblico, l’analisi introspettiva dell’anima e del carattere dei personaggi e il respiro ampio, coraggioso e impietoso del romanzo che si fa indagine e interpretazione della società e della cultura del suo tempo.

    

Ma dal momento che questa non è una recensione ma un Cantagiro, tra i tanti fili narrativi che si trovano ne Il fuoco che di porti dentro mi è bastato seguire quelli che s’intrecciano alle canzoni. Questo assaggio di trama è sufficiente a rendere conto della felice vastità dell’arazzo romanzesco. Nella colluttazione esistenziale madre-figlio si aprono scene da commedia edoardiana. Angela ha un rapporto ambivalente con il corpo e con il sesso: orgogliosa e vanitosa della sua sensualità ferina e popolana trancia a colpi di sciabola la moralità degli altri e, soprattutto, delle altre. È una virtuosa della “mossa” e la sua memoria canora attinge a un repertorio giovanile ricco di doppi sensi: "Dalla celebre che bella pansé che tieni che bella pansé che hai me la dai me la dai me la dai la tua pansé di Carosone a una semisconosciuta m’o vuo’ mettere, Pasca’? – quando ti decidi a infilarmelo, Pasquale? – che si riferisce, naturalmente, all’anello matrimoniale".

 

 

     

Negli ultimi mesi della sua infermità viene assistita dai figli che provano a distrarla dalle ossessioni paranoiche senili facendole ascoltare canzoni napoletane attingendo alle infinite risorse di YouTube.

 

«Ti faccio sentire un po’ di musica napoletana?».
Annuisce, arresa.
«Che vuoi sentire?».
«Chello ca vuo’ tu».
«No, dimmi tu. Tanto qua c’è tutto».
«Lazzarella».
Ho l’iPad sulle ginocchia e digito su YouTube.
«La vuoi sentire cantata da chi? Carosone, Aurelio Fierro, Modugno, Massimo Ranieri?».
«Comme vuo’ tu».
«E mettimm’ Aurelio Fierro, va’… Andiamo sul classico. Sentimmo…».
Conosce le parole una per una e si mette a cantare.

   

Ho sempre saputo che è la sua canzone  e la scuola del Gesù è quella dove ha fatto il liceo, però nei versi non c’è solo la scuola e la camicetta a fiori e la grazia dell’Italia povera, c’è anche, e soprattutto, il negarsi, il dire no come prima risposta e solo per ripicca: ma la negazione è bella a primavera, nella brutta stagione il rifiuto è solo una spina in più nel ramo secco della vecchiaia.

   

     

In un altro passo Franchini, in una di quelle digressioni che innervano le sottostorie di questo romanzo, analizza il testo della celeberrima Zappatore, di Libero Bovio, portata a una sconfinata popolarità dalla versione sceneggiata di Mario Merola. L’occasione è il confronto generazionale tra l’umile origine dei padri e la voglia di affrancamento dei figli dal giogo ancestrale del familismo. È una disanima raffinata per precisione letteraria ma soprattutto per le considerazioni sociologiche in cui il particolare accadimento familiare diventa occasione per riflettere sul secolare complesso di inferiorità del Sud rispetto al Nord, una frustrazione che si difende dietro l’eterna maschera aggressiva della guapparia.

   

     

C’è però un colpo da maestro del romanziere, lo scatto che fa vincere la tappa a Franchini – e forse il Giro d’Italia degli scrittori contemporanei – La ferina e perturbante Angela, negli ultimi giorni della sua vita vissuta in trincea permanente, dopo una vita di ostinate e pregiudiziali opposizioni, annuisce ai programmi terapeutici dei medici: «Abbassa il capo e lo nasconde nelle braccia, come mi mettevo io in classe alle elementari quando mi venivano gli attacchi di emicrania». Angela è ormai ridotta a un essere smarrito e tremante, sopraffatta da uno "stupore che le addolcisce i tratti". Antonio e la sorella ricorrono al solito palliativo: le fanno ascoltare delle canzoni.

«Vuoi sentire una canzone? Quale canzone vuoi sentire?».
Non risponde e io sto per metterle una canzone dei tempi suoi, ma poi faccio un’altra cosa.
Napule è mille culure.
Napule è mille paure.
Lei continua a tremare e ha uno sguardo vuoto e perso, che non riconosce.
Non è una canzone dei tempi suoi, non parla della sua giovinezza.
Mia sorella, che sta lavando i piatti, s’interrompe di colpo e mi fissa.
Napule è nu sole amaro.
Napule è addore ‘e mare.
Io mi alzo e attraverso la stanza andando verso la finestra come dovessi controllare qualcosa tra le piante del giardino, perché non voglio che mi veda se piango.

     

   

Si sta finalmente per compiere un destino che tocca la tragedia, esito di un’esistenza che per molti versi ha preso le forme della commedia. La dissimulazione, si badi bene, non del pianto, ma dell’eventualità del pianto appartiene all’essenza della lirica. Il fuoco che ti porti dentro vince per distacco.

    

Il pronostico

Difficile che sul traguardo di Napoli qualcuno possa vincere per distacco. Potrebbe di nuovo essere un arrivo in volata e un esplosione di muscoli e velocità. E potrebbe essere la volta dell’australiano Kaden Groves.

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