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Il Foglio sportivo

Sinner a Roma è pronto a ripartire da numero uno

Giorgia Mecca

Nei cento giorni senza tennis Jannik ha scoperto la vita senza stress, a cui non ha mai avuto accesso. Le incognite del suo grande ritorno in campo dopo tre mesi

Cento giorni. Il tennis è un treno in corsa. A lui è stato chiesto di scendere. Tre mesi che hanno incoronato campioni sempre diversi, mentre lui, incolpevole, arrabbiato e infine rassegnato è stato costretto a fermarsi. Il circuito in disordine, lui fuori dai giochi e tutti gli altri a pensare: “ora forse c’è spazio per tutti”. Di tennis in queste settimane ne ha guardato pochino, lo ha messo in pausa, ha preferito sciare, andare in bicicletta e sui go kart. Se non avesse fatto il tennista avrebbe voluto diventare un pilota, ma a casa i soldi non erano abbastanza per una carriera del genere, ha detto in un’intervista concessa al Tg1 in cui ha anche aggiunto che questa pausa gli ha fatto capire che il tennis è importante, addirittura fondamentale, ma esiste anche il mondo fuori dal campo, che è ugualmente importante, addirittura fondamentale

 

                  

 

Quest’anno gli Internazionali d’Italia saranno soprattutto il torneo del come back, Jannik Sinner che torna in campo dopo tre mesi, ancora numero uno del mondo, con il trono sano e salvo. La sua ultima partita si è giocata il 26 gennaio scorso, la finale degli Australian Open vinta contro Alexander Zverev, l’uomo del mancato sorpasso (l’intervallo di tempo tra l’ultima sconfitta e l’ultima partita è ancora più lungo di questa pausa forzata visto che Sinner non perde dallo scorso 2 ottobre, Pechino, finale contro Carlos Alcaraz, l’altro uomo del mancato sorpasso). 

“Per essere il più forte della storia devi essere uno schiavo”, dice Juan Carlos Ferrero, coach di Alcaraz, nella docuserie sul ventunenne spagnolo uscita di recente su Netflix con il titolo “A mi manera”, la Carlito’s way of life. La sentenza viene confermata anche dall’ex campionessa Slam Garbine Muguruza, che rincara la dose: è necessario vivere e respirare tennis, solo tennis, non c’è posto per nient’altro. Avete presente Rafa Nadal? 

Ma chi l’ha detto che quella la vita, la vita che vivevano i cannibali, il loro modo di interpretare la carriera fosse quello corretto? E se il loro mondo fosse diventato inabitabile per le nuove generazioni? “Voglio giocare a tennis e voglio essere sereno”, ha detto Sinner in un’intervista rilasciata a Sky Sport durante la sospensione. Per chi ha vissuto il tennis come un ring in cui o uccidi o vieni ucciso un desiderio ha sempre escluso l’altro.

Il numero uno del mondo, liberato dal tennis perché costretto a farlo, ha scoperto com’è vivere senza sentirsi perennemente sotto stress, nessun numero davanti al suo nome, nessun cappellino da indossare o emozioni da nascondere. Ha vissuto una routine fatta di cene con gli amici e PlayStation, la vita che vivono i ventenni, i comuni mortali, una vita a cui lui non ha mai avuto accesso. Per il suo ritorno ufficiale agli allenamenti, cominciato due giorni dopo rispetto a quanti avrebbe voluto (ulteriore segnale di relax, niente da rincorrere, nessuna foga o agonismo da voler esibire) ha scelto di chiamare a Monte-Carlo due amici, Jack Draper e Lorenzo Sonego e anche questo forse è un messaggio. 

Il documentario su Alcaraz e la gestione dello stop e del rientro di Sinner forse ci stanno mostrando che l’epoca dei Big 3 è davvero finita e che si fa un torto al presente continuando a parlare del passato, per quanto meraviglioso e drammatico sia stato. I venti Slam come asticella senza la quale ormai non esisterà nessuna gloria, le carriere eterne, le strisce di vittorie consecutive, quelle rivalità maligne, l’agonismo esasperato, giocare a tennis come se al mondo non esistesse nient’altro. E poi la richiesta di vincere e di stravincere sempre, di offrire il proprio corpo in sacrificio al tennis. È come se i ventenni di oggi, i nuovi numeri uno, ci stessero dicendo, no grazie. È stato bello ed è stato troppo. Questa è la nostra vita, non quella che bisognerebbe vivere sulle tracce di altri. 

Alcaraz e Sinner non vogliono rivendicare nessuna eredità. “Non sono Nadal”, ripete svariate volte nel corso del documentario lo spagnolo “Non voglio spingermi così tanto oltre come lui”. L’italiano durante un’intervista, senza essere così esplicito, fa capire che siamo entrati in una nuova era. I giganti se ne sono andati e pure l’ombra che li circondava e l’atmosfera da fine del mondo. Il tennis esiste ancora e gli scambi non sono mai stati così veloci. Senza supplizi e senza massacri, senza digrignare i denti o trasformare le sconfitte in tragedie, senza prendersi troppo sul serio o negare a se stessi la possibilità di fallire, fermarsi, chiedere un time out. 

È solo tennis. Non è vero. Non è mai solo tennis quando sei il numero uno del mondo, le statistiche lo dimostrano: considerando il 2024, stagione completa, Sinner ha vinto 73 partite e ne ha perse 8, tante quante i titoli vinti. Questo significa trattare il tennis con cura e dedizione, dedicargli la maggior parte del proprio tempo. Questo significa allenarsi con serietà, per avere l’opportunità di divertirsi in seguito, una volta dentro il match, poco prima di un match point, mettersi il cappellino e spaccare la pallina ogni volta, vincere ogni volta che vincere è possibile. Forse però durante questi tre mesi fuori dal circuito Sinner ha imparato che il tennis non deve diventare una malattia, un attacco di panico nel corso di un quarto di finale di uno Slam, non deve farti tremare dalla paura, non deve farti venire i crampi. 

Si può essere campioni senza essere ossessivi, maniacali, egoriferiti, cannibali. Si può essere campioni giocando a tennis leggeri, provando a sorridere di più. Vivere alla maniera dei Post Millenials. E fare il conto dei titoli vinti soltanto alla fine