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Il Foglio sportivo

I sogni di Anna Danesi non finiscono

Umberto Zapelloni

“Dalla bambina che aveva vergogna dell’altezza all’oro olimpico”. Intervista alla capitana della Nazionale di volley

“Ci vorrebbero in giro più Anna Danesi”. Una frase che si sente spesso nel mondo del volley, tanto che adesso la ripete anche la diretta interessata, una ragazza che a differenza di tante sue compagne non è mai andata sopra le righe. Dopo aver letto il suo libro, aver chiacchierato con lei e attorno a lei con chi la conosce bene, ci si rende conto che quella frase non è buttata lì tanto per dire. E probabilmente spiega anche perché Julio Velasco l’ha voluta come capitana di quello che poi è diventato il dream team dello sport azzurro. “Aprirmi non è una cosa che mi piace, ma quando ho deciso di raccontarmi in un libro mi sono detta che dovevo farlo, scrivendo anche cose che non avrei pensato di dire – spiega Anna – È un libro che può essere letto da un bambino di 8 anni con la mamma, da un ragazzo di 18, ma anche dalla generazione dei miei genitori che hanno sessant’anni. Perché è un libro che non parla solo strettamente di me, della mia vita e della pallavolo che è una colonna portante della mia vita… ma racconta tutto ciò che c’è dietro lo sport in generale. II sacrificio,  l’allontanarsi da casa, la scuola, la vita a 360°. Credo che possa insegnare tanto e a varie generazioni”.

 

Come è messa la sua medaglia d’oro?
“La mia non ha subito danni a parte qualche graffietto perché l’ho lasciata nella borsa tra le chiavi… adesso è in ottimo stato ben nascosta in mezzo a scatole di biscotti”.

Così magari viene voglia di morderla ancora… 
“O di morderne un’altra”.

Che poi sarebbe la medaglia di Miriam Sylla dopo che ve la siete scambiata sul podio di Parigi?
“Io ho la sua medaglia, lei ha la mia. Mi era sembrato un bel gesto perché con lei ho condiviso tantissimo da quando sono uscita di casa. Era giusto che lei avesse la mia e io avessi la sua…”.

Ma che cosa è successo con i kiwi con Miriam?
“Non so perché un giorno quando eravamo ancora ragazzine mi chiese di lanciarle un kiwi. Io sbagliai lancio e il kiwi cadde per terra proprio mentre entrava la nostra tutor che ci chiese di chi era. E poi costrinse Miriam a mangiarlo. Da allora lei non mangia più frutta e io mi sento un po’ in colpa così ogni tanto la tento: prova almeno un mirtillo…”.

Certo una bambina che ha 10 anni chiede come regalo alla mamma una cena a base di verdura, deve avere un rapporto particolare con il cibo.
“Il mio rapporto con il cibo è bellissimo, mangio di tutto e sono curiosa di provare tutto anche quando andiamo all’estero…”.

 

E infatti nel libro racconta di qualche fuga notturna.

“Abbiamo la cena obbligatoria in hotel, ma in Giappone non ho saputo resistere e con due amiche abbiamo fatto questa follia e siamo andate a mangiare ramen…”.

Quando si è resa conto che rimarrà nella storia come la prima capitana azzurra del volley ad aver conquistato l’oro olimpico?
“In realtà non me ne sono ancora resa conto… Ma credo che a rimanere nella storia della pallavolo sarà tutto il nostro gruppo. Confesso però che ci ho preso gusto e sogno altri podi”.

Come è essere la capitana di una squadra piena di ragazze famose e toste come Egonu, Sylla, Orro o De Gennaro?
“È una responsabilità in più o qualcosa che mi ha reso orgogliosa perché è una squadra ricca di persone che anche oltre alla pallavolo stanno dando un’impronta a tutto. Un gruppo di donne meravigliose, dove ognuna può insegnare qualcosa. Sono orgogliosa che Julio mi abbia scelto perché evidentemente ha visto qualcosa che andava anche oltre la pallavolo”.

Ma a Parigi c’è stato un momento difficile?
“È stato un percorso incredibile. Forse abbiamo avuto un attimo di timore quando abbiamo perso un set con la Repubblica Domenicana… ma poi anche quando eravamo sotto nel primo set con la Serbia nei quarti siamo riuscite a tenere lontano la paura. E poi abbiamo capito che avremmo vinto”.

Già prima dei Giochi proprio al Foglio aveva detto “Siamo pronte per lo spettacolo”. Ve lo sentivate?
“Lo volevamo tantissimo. L’Olimpiade è una competizione diversa da tutte, anche a Tokyo ci davano una medaglia sicura, invece… Quest’estate per come volevamo quel podio, sapevo che avremmo tirato fuori qualcosa di bello”.

 

            

 

La paura esiste prima di entrare in campo?
“Sì. Anche se probabilmente la superi partita dopo partita. Io ora ho quasi più paura a fare un esame che a giocare una partita, perché dopo un po’ ci fai l’abitudine… Ogni tanto però è anche bello provare paura, provare agitazione. Perché sono sentimenti, emozioni, che ti fanno stare sul pezzo”.

Racconta che Velasco emana un’aura pazzesca. Quanto di quella medaglia è merito suo?
“Abbastanza. Emana quel qualcosa che vorresti sempre da un allenatore. Ci ha tolto le responsabilità, a ognuna ha dato un ruolo specifico… e poi ogni tanto tirava fuori delle perle…”.

Ce ne è una rimasta in testa?
“Prima della finale della Vnl è entrato in spogliatoio e ci ha detto: una finale è una partita come tutte le altre. Non dovete dare nulla di speciale, fate come al solito, mettete in campo quello che riuscite… Detta da lui in quel momento preciso ha avuto un certo effetto”.

Adesso tocca a lui farvi restare affamate per il Mondiale anche dopo l’oro olimpico.
“Ha cominciato il giorno dopo la finale olimpica. Ma vincere ti fa venire voglia di vincere ancora di più. E poi al Mondiale abbiamo un argento e un bronzo e quindi ci è rimasto un po’ d’amaro in bocca. Il ricordo di quell’oro però rimarrà per sempre e magari lo useremo nei momenti un po’ più difficili per ricordarci quello che abbiamo fatto e per dirci ripeterci che siamo in grado di rifarlo””.

Scrive che la differenza tra lo sport professionistico e quello amatoriale è un abisso fatto di fatica, fatica e ancora fatica. Mai pentita di tutta la fatica che ha fatto?
“No, ne rifarei anche di più perché senza quella non arrivi. Senza il lavoro, senza i sacrifici, senza gli allenamenti anche quelli in cui vorresti dire ok, io oggi me ne vado a casa. Non ci sarebbe stato tutto il resto. Sono proprio quelli allenamenti che non vorresti fare che ti fanno arrivare”.

E a 29 anni quanta fatica ha ancora voglia di fare?
“Per la Nazionale tanta, sognando di arrivare anche alle prossime Olimpiadi. Poi potrò cominciare la vita vera”.

Una vita dove metterà a frutto la laurea in Scienza dell’Alimentazione?
“A dire il vero sto prendendo i crediti per insegnare. Mi piacerebbe insegnare educazione fisica ai bambini. Ma vedremo tra sei anni quando smetterò”.

Vuole far crescere tanti bambini come lei, tante Anna Danesi?
Ognuno deve trovare la sua strada, seguire la sua personalità, però vorrei che rispecchiassero i valori che i miei genitori mi hanno insegnato: umiltà, educazione, rispetto e gentilezza. Loro sono stati davvero impeccabili”.

Si definisce semplice, solare e testarda. Ma qualche difetto? Dovremo chiedere a sua sorella?
“Lei scriverebbe una lista infinita… In realtà la testardaggine che mi fa sta lì a provare e riprovare finché una cosa non riesce precisa come voglio io, può anche essere vista come un difetto”.

Se oggi il suo metro e novantasei è un grande vantaggio per la carriera di pallavolista, da ragazzina scriveva che era motivo di impaccio. Come lo ha superato?
Fregandomene. Verso i 18 anni ho semplicemente messo da parte tutto quello che non mi faceva crescere e mi faceva stare male. Quella vergogna che provavo nell’essere così alta a scuola l’ho messa da parte e l’ho usata a mio vantaggio. Non è stato facile perché la vergogna non è una cosa bellissima, però quando te ne freghi di quello che dice la gente poi ne esci tranquillamente”.

Come è ritrovarsi in finale scudetto (o come sarà in Champions) da avversarie le compagne di nazionale?
“All’inizio era strano. Non vorresti mai fare punto o subire punto da loro. Ma poi alla fine pensi solo a vincere con il tuo club”.

E al contrario le tensioni tra club non arrivano mai in azzurro?
“La Nazionale è un mondo a parte e quando torniamo in gruppo è come entrare in una bolla, sparisce tutto il resto. Poi certo la battutina ci scappa…”.
 

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