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Marco Baroni e la rivincita della Lazio
In pochi mesi l'ex difensore ha trasformato una squadra sfiduciata in una macchina da vittorie. Nessun allenatore da esordiente aveva mai vinto 11 partite su 15 della stagione con la Lazio. I segreti di un equilibrista
L’utente volerevolare, undicimila e rotti messaggi sul forum Lazionet, l’undici giugno scorso sintetizzava così: “La sfida che stai per affrontare è di quelle che fanno tremare i polsi: arrivi in una società con un ambiente dilaniato dalle contestazioni, in uno spogliatoio in ebollizione con i senatori che vogliono mantenere i loro privilegi ed un ricambio generazionale da iniziare/completare. Il tuo datore di lavoro è l’uomo più odiato dalla tifoseria e, come unico punto di riferimento in società, hai un direttore sportivo che ha un curriculum vitae peggiore del tuo. Dubito che tu abbia avuto garanzie tecniche e quindi dovrai fare di necessità virtù”. Tra i massimi esperti del ramo, cinque mesi più tardi, Marco Baroni è nei pressi di dio. Nessun allenatore esordiente della Lazio aveva mai vinto 11 delle prime 15 partite della stagione. Alla prima vera occasione della sua carriera, giunta a 61 anni dietro la curva di mezzo secolo di allenamenti, vittorie, sconfitte, promesse tradite, imprese, promozioni, esoneri e tanta, tanta provincia, il sosia di Billy Bob Thornton è arrivato a Roma. Malgrado gli altri, quelli che per diritto divino saltavano sempre la fila, malgrado l’età, malgrado l’indole. Non fa scenate, non si arroga meriti che non ha, non prende la scena. Si sveglia prima delle 5 di mattina, “si è più lucidi”, incontra i primi collaboratori alle 7, lavora come un pazzo e non dà peso al tempo: “Bisogna andargli incontro, correre, confonderlo, ingannarlo”.
Le soste, a volerle cercare, le trovi nelle vecchie Polaroid. A 11 anni entra nelle giovanili della Fiorentina. A 14 incontra Patrizia, la sposerà, faranno tre figli. A 18, circondato da Cuccureddu e Ciccio Graziani, con una maglia dal giglio enorme, meravigliosa e psichedelica, esordisce in serie A e vede per la prima volta San Siro da calciatore. Poi inizia a girare l’Italia. Un anno a Monza, l’altro a Padova con Gennaro Rambone in panchina, uno che i presidenti li chiamava “banditi” e citava Ortega Y Gasset: “essere di destra è, come essere di sinistra, una delle infinite maniere che l’uomo può scegliere per essere un imbecille”, l’altro ancora a Udine. Baroni trotta in difesa, da centrale e gioca bene. Lo acquista la Roma e Azeglio Vicini lo convoca nella Nazionale Under 21. Nelle istantanee dell’epoca, in mezzo alla meglio gioventù, tra Zenga, Vialli e Mancini, con le braccia conserte e lo sguardo sicuro, c’è anche Marco Baroni da Tavarnuzze. Sfiora l’Europeo di categoria, poi la Roma dello zonista Eriksson se ne libera senza particolare delicatezza e il nostro viene spedito in Serie B, a Lecce. Lì Baroni fa quello che ha sempre fatto. Si mette in riga, mette in riga gli altri e da leader porta la squadra in serie A. Franco Jurlano, padrone della squadra, pioniere del calcio in Salento, voce roca e volto da cinema western, tutto romanticismo e battaglie contro il sistema, lo adorava per la serietà. Ma in realtà, in quel Lecce in cui Barbas e Pasculli facevano da balia a un giovane Antonio Conte, Baroni sapeva soprattutto sdrammatizzare. Demitizzare, alleggerire, ridere, ascoltare.
La stessa ricetta di Maestrelli che proprio come Baroni precipitò nell’inferno laziale circondato dai lazzi e seppe essere genitore, amico, fratello maggiore, confidente, allenatore e infine leggenda. Prima la famiglia, poi gli schemi. Prima l’obiettivo in comune, poi le strade, a volte tortuose, per conquistarlo. Prima i patti, poi l’amicizia lunga. Baroni crede nel gruppo. Ci ha sempre creduto. All’epoca di Carlo Mazzone, padre putativo di tanta gente speciale (Ranieri, Baggio, Totti, Baroni stesso), Checco Moriero non aveva ancora lucidato gli scarpini a Ronaldo, allenato la Nazionale delle Maldive, né vestito la maglia delle prima squadra della sua città. Mazzone voleva farlo esordire e Checco non si trovava. Mimmo Cataldo, il ds, lo fece cercare ovunque e alla fine lo trovarono in spiaggia, a San Foca, a giocare con gli amici. Caricato dal padre su una 126 fu portato in pieno centro, all’Hotel President, al cospetto di Mazzone. A Trastevere gli avevano insegnato ad andare rapidamente al punto: “A regazzì, sei emozionato? Tanto nun me ne frega un cazzo, oggi giochi dall’inizio”. Nei lunghi ritiri senza playstation, con la briscola a darsi le carte con la noia, Moriero, con Mazzone come deus ex machina, finì in camera con Baroni e divenne un professionista: “Aveva sempre la battuta pronta, Marco. E una calma, soprattutto nella tempesta, che non ho più ritrovato in nessun altro”.
Alla Lazio avrebbero potuto pensare a ingaggiarlo qualche anno prima, quando Baroni allacciava ancora gli scarpini, spandeva l’olio di canfora sui polpacci, si faceva il segno della croce e con il numero sei sulle spalle le segnava con una certa regolarità. Lo fece con il Lecce, in serie A, al tramonto degli anni 80 e poi in un giorno sospeso di maggio, nel 1990, quando era già al Napoli. Baroni fece gol alla Lazio nell’ora più importante. Il momento esatto in cui la squadra guidata da Bigon, premiata da una delle cicliche e fatali sconfitte veronesi del Milan, ebbe in Baroni e non in Maradona, l’esecutore materiale del sogno scudetto. Quel pomeriggio in cui tutti volevano far esultare Diego, quel pomeriggio in cui era venuto a vederlo persino Carlos Bilardo in tribuna, quel pomeriggio in cui Giuliano Giuliani, il portiere di quella squadra, sorrideva ancora prima di andarsene, da reietto e da dimenticato, cancellato dall’Aids, a 38 anni, quel pomeriggio in cui il futuro avvocato Valerio Fiori, nell’altra porta, respinse ogni argomentazione maradoniana, le braccia al cielo le sollevò Baroni. Maradona lo chiamava “cabezon” perché di testa, in area, Marco B. sapeva farsi rispettare. I due erano amici perché entrambi erano consapevoli del ruolo toccato loro in sorte. C’era il re e c’erano gli scudieri. C’era El Pibe e c’era Ciccio Romano come c’era stato Platini perché esisteva Massimo Bonini. “Di quel Napoli ero la parte operaia” disse Baroni. C’era del vero: Tebe dalle sette porte chi la costruì? Diego, che in Argentina era cresciuto in una favela, molto brechtianamente e molto al di là della passione per Fidel, aveva una sua coscienza di classe. Farsi gregario gli costò pochissimo. Quando Baroni contribuì da tecnico alla storica promozione del Benevento dalla B alla A, squillò il telefono. “Que tal, cabezon?”. Diego voleva complimentarsi. Fargli sapere che non si era dimenticato del suo operaio. La vita è fatta di incontri. Di congiunture. Di tempi che come rette divergono e non si toccano mai più. Se Oreste Vigorito, patron del Benevento, dottore in legge, affari (proficui) nell’eolico, uno che aveva fatto dire a Silvio Berlusconi: “Vigorito è tra le cinque persone al mondo che potrebbero comprare il Milan”, avesse incontrato Maradona avrebbe sicuramente provato ad affidargli il Benevento. Lo consegnò invece a Baroni che da Diego era stato a lezione: “Diego era una luce abbagliante. Allenarsi con lui i primi tempi fu straniante. Mi distraevo con facilità, seguivo ogni movimento, ogni dettaglio”. Diego palleggiava con le arance e voleva giocare sempre all’attacco. Il Baroni di oggi, con 4 attaccanti e due terzini che interpretano il ruolo da ali aggiunte, gli sarebbe piaciuto moltissimo.
Bisogna saper cogliere l’attimo e forse non è così strano che a indossare i panni di tecnico più offensivo del campionato, sia proprio un ex difensore. La Lazio vince. La Lazio diverte. Non ci sono più Luis Alberto e Immobile, non c’è, ormai da un pezzo, Milinkovic-Savic, non c’è più l’idea che sia il grande nome a tenere in piedi l’idea stessa. L’idea vale a prescindere, chiunque o quasi la interpreti. “Sono tutti importanti”. Lo slogan più vieto del calcio italiano, oppresso da rose larghissime e da gente pagata per pascolare tristemente in tribuna, in bocca a Baroni diventa realtà. Quindici formazioni diverse in 15 gare. Nessuno ha utilizzato più giocatori di Baroni. Che ne ha pochi e – vedi alla voce “di necessità virtù” – ha bisogno di tutti. Così non ci sono più doglianze, musi lunghi, veleni, distrazioni. Così ecco Nuno Tavares, reduce da vari malanni e incompreso in Inghilterra, miglior assistman d’Europa. Ecco Dia, emarginato e bizzoso a Salerno, che qui vale già il doppio. Ecco Castellanos, non più confinato alla panchina ma abbonato al tabellino. Ecco Rovella che a tratti, dicono i blasfemi, sembra Re Cecconi. Ecco Pedro, che si è alzato, come Lazzaro, ma a 37 anni corre e al camminare preferisce 92 minuti di corsa per battere il Porto. Ed ecco tutti quelli che prima o poi, da Tchaouna, a Noslin, a Dele-Bashiru, arriveranno a completare un’annata magica che supera ogni valutazione di merito per riabbracciare una vecchia conoscenza del pallone: l’imponderabile. In uno sport in cui un colpo di vento o un colpo di culo determinano il destino, ciò che non ha una spiegazione logica riveste un’importanza fondamentale.
Si tratta di un miracolo? Baroni rigetterebbe l’ipotesi e direbbe che forse è solo la dimostrazione che i titoli non si vincono ad agosto. Baroni ha lavorato in silenzio. Ha lavorato sognando: “Se non hai la scintilla del sogno è difficile persino alzarsi dal letto la mattina”. Lo stesso ha fatto, prendendosi una rivincita inaudita, Angelo Fabiani, il direttore sportivo scelto l’anno scorso per sostituire dopo un lungo decennio Igli Tare. Ex agente della penitenziaria ed ex impiegato del ministero di Grazia e Giustizia, complice se non artefice di molte promozioni di retroguardia (Messina, Genoa e Salernitana), grandissimo amico di Luciano Moggi, trascinato sul banco degli imputati per Calciopoli e poi assolto da ogni addebito, Fabiani è stato ripetutamente irriso per il suo passato e per il suo presente. Il peccato contemporaneo, essere da un decennio uno dei più stretti collaboratori di Lotito, agli occhi di una parte della tifoseria, non è mondabile. Restavano i risultati come ultima ratio e i risultati stanno arrivando. Baroni sostiene che a guardare la classifica si rischi la cecità e predica prudenza. Ma fa parte del gioco e adesso questa strana coppia di coetanei, Baroni e Fabiani, questa coppia fuori tempo massimo, figlia di primo letto dell’assoluta indifferenza di Claudio Lotito alla sconfinata ostilità della tifoseria laziale, rischia di scrivere una pagina che nessuno si aspettava.
A rendere straordinaria l’atmosfera intorno alla Lazio, in una città che aspetta ogni derby come una finale di Champions, contribuisce la stagione della Roma. La più deludente da un ventennio con forti e percepibili margini di peggioramento. Accantonato senza una vera ragione che si potesse rivelare il multiforme Mourinho e premiata nel cambio improvviso la bandiera De Rossi con tre anni di contratto, la società dei Friedkin, partita con grandi ambizioni, ha 13 punti dopo 11 giornate di campionato. Uno in più del Verona, lo scorso anno salvato da Baroni con un capolavoro, uno in meno dell’Empoli e 9 in meno della Lazio. In coppa poi arranca penosamente, mentre i rivali guidano l’Europa League con 4 vittorie su 4. L’allenatore che occupa il posto di De Rossi, allontanato quasi più brutalmente di Mourinho trascorse appena quattro giornate, è croato e si chiama Ivan Juric. Dopo aver lasciato non senza rancori il Torino di Cairo, dal nulla, si è ritrovato con il biglietto vincente della lotteria in mano. Avrebbe potuto rappresentare la risposta uguale e contraria a Baroni, ma è andata diversamente perché certe improvvise fortune nascondono sempre una fregatura. Ripetutamente battuta, piena di equivoci tattici, doppioni e dissidi interni, la Roma, con una proprietà lontana anche geograficamente, un indice di spesa inversamente proporzionale alle vittorie e un direttore sportivo francese che giurano galantuomo, ma che dopo sei mesi, per rampognare la squadra nel ventre dello spogliatoio, ha bisogno dell’interprete, è allo sbando. Juric, totalmente delegittimato, aspetta soltanto il giorno in cui gli indicheranno l’armadietto da svuotare e l’annata, a novembre, sembra promettere altra pioggia su una superficie già scivolosa.
Aveva giocato nella Roma, proprio come Baroni, anche Tommaso Maestrelli, il già evocato demiurgo della squadra di Pulici e Chinaglia. Da giovane era stato un centrocampista di un certo talento ed eleganza che all’occorrenza non tirava indietro la gamba. Leonardo Semplici, ex allenatore di Spal, Cagliari e Spezia, nato a 200 metri da casa Baroni e figlio proprio come lui della Via Pàl dell’Impruneta, sosteneva che in quanto a rudezze, Baroni non fosse secondo a nessuno: “picchiava sicuramente più di me”. Ma per ritrovare quel Baroni, lo stesso che insieme a Semplici, sul campo della Rondinella Marzocco, tra i dilettanti, a carriera quasi finita, spiegava i movimenti difensivi al futuro campione del mondo Barzagli, i ricordi servono meno dell’esempio di oggi. L’uomo ha allenato a Frosinone, a Cremona, a Lanciano (benissimo), a Siena, a Carrara, un po’ ovunque. A volte è finita bene, altre in trionfo, altre ancora malissimo. Ha compiuto imprese che non entreranno nei libri di storia, a volte ha preso calci, altre lavorato e vinto con il volume degli ingaggi più basso della serie A e con le squadre più giovani. Ha allenato la primavera della Juventus. Sa come si fa con i ragazzi e con le vecchie glorie. Conosce il rigore e la delicatezza. Conosce il calcio. Conosce l’umiltà che serve per sopravvivere nella giungla. Le pieghe degli spogliatoi. I compromessi a cui abdicare, le battaglie che vale la pena combattere.
Ogni storia ha le proprie necessità. A trent’anni, dopo il fallimento del Bologna, si trovò disoccupato. Giocava in B, scese in quarta serie, a Poggibonsi, perché un pallone rotola anche dove le tribune sono fatte con i tubi Innocenti. Lui dice che si impara anche nella sconfitta e che a volte per crescere siano necessarie carezze e urla: “Il nostro è un mondo di urlatori, ma ci sono urla e urla. Mazzone, dopo uno Juventus-Lecce, venne squalificato per due giornate a causa delle ingiurie rivolte a un suo giocatore. Il giocatore ero io, ma a Mazzone ho voluto bene come a un padre”. Il suo, Enio Baroni, lo ha salutato in ginocchio e in lacrime sul prato di Monza, dopo una salvezza ottenuta con il Lecce. Non ci sono vittorie che contino più di altre: conta l’anima. Sulla giostra, Baroni ha saputo stare in equilibrio perché ha sempre saputo dove si stava dirigendo, dove andava ad abitare, curioso del mondo con il quale si stava per mettere in relazione. A Lecce e a Verona abitava in centro storico. A Roma ha cercato il dialogo, in punta di piedi, e ha trovato il suo spazio tra gli anti Lotito a prescindere, i critici severi e gli agnostici. I tifosi della Lazio vengono illegittimamente trattenuti in un albergo di Enschede? Baroni ne parla nelle interviste successive alla partita con il Twente. Scompare un sostenitore caro alla curva? Baroni lo saluta dalla tv e le parole, ecco la vera magia, non sembrano di circostanza. Così si crea un rapporto. Così si dimostra il rispetto e il rispetto non è mai genuflessione. Marco Baroni ama il mare. Se le onde si alzeranno è lì che tornerà. E’ già successo o per dirla con Cocciante e Sorrentino, era già tutto previsto. “In mare hai sempre la sensazione che qualcosa possa succedere all’improvviso. In mare sei chiamato a decidere in un attimo. Chi decide, sbaglia. E’ il mio mestiere”. “Chi non sbaglia”, diceva Maestrelli, “non è di questa terra”.