Giovanni Trapattoni in una foto del 2009 (foto LaPresse)

i fischi del trap

Gli ottantacinque anni di Giovanni Trapattoni

Furio Zara

Ultimo di cinque figli, prete mancato, tipografo per necessità, calciatore con la maglia del Milan e della Nazionale. Poi soprattutto allenatore capace di vincere tutto

Il padre della patria Giovanni Trapattoni ne fa ottantacinque e da un tempo lontano - eppure, era solo ieri - risuona ancora nel nostro calcio l’eco del suo fischio. Fischia il Trap, le dita incrociate sulle labbra, come ha imparato da bambino copiando suo padre operaio che - in una sequenza da film neorealista - quando torna a casa sul far della sera così si annuncia al figlio Giuàn. Un fischio secco, perentorio, a richiamare un difensore distratto o semplicemente una nota stridula lanciata lì, nel concerto della partita, a marcare un’identità o un bel ragionamento, seguendo un filo logico e importante.

Nato a Cusano Milanino il 17 marzo 1939, nella stagione che corre verso la Seconda Guerra Mondiale, ultimo di cinque figli, prete mancato, tipografo per necessità, calciatore con la maglia del Milan e della Nazionale - nell’iconografia popolare è il Trap che ha fermato Pelé in un’Italia-Brasile del 1963 (ma O Rei rimase in campo, dolorante e zoppicante, per soli ventisei minuti) - poi allenatore della Juventus dei sei scudetti in dieci anni (1976-1986) e di tutte le coppe possibili in bacheca, quindi dell’Inter dei record (1989) e poi - dopo le tappe a Cagliari e Firenze - il Trap pioniere che parte alla conquista dell’Europa vincendo titoli ovunque, dal Bayern Monaco al Benfica fino al Salisburgo per un totale di 22 complessivi che ne fa uno degli allenatori più vincenti della storia del calcio. Per tacer del Trap ct, prima dell’Italia al Mondiale di Corea-Giappone 2002, con l’ampolla di acqua santa regalo della sorella suora, custodita nella tasca destra dei pantaloni della divisa ufficiale dell’Italia, estratta nei momenti chiave della partita e usata con cristiana disinvoltura, però inutilmente, perché il Diavolo quella volta assume le sembianze pacioccone dell’arbitro Byron Moreno che - letteralmente - elimina l’Italia contro i padroni di casa della Corea del Sud (Flashback: imbufalito il Trap sferra un clamoroso pugno al plexiglass della panchina e dà un calcio a una bottiglietta d’acqua, ma non santa). E poi Ct dell’Irlanda, beffato dalla mano malandrina del francese Henry, nello spareggio che gli nega la qualificazione al Mondiale di Sudafrica 2010. Si è alzato l’ultima volta da una panchina nel settembre del 2013, già superati i settanta, con addosso un impermeabile beige e confortato da quell’aria perennemente corrucciata, tesa e concentrata sullo sviluppo di una partita. Aveva cominciato nel 1973, da vice al Milan.

Quarant’anni secchi da maestro del calcio all’italiana, marchio di fabbrica e orgoglio di un tempo felice - i nostri club dettavano legge in Europa - che oggi suona quasi come un’offesa, figurarsi. Il pragmatismo come filosofia di vita. Trap dixit: “I maghi non esistono, quelli li bruciavano nelle piazze del 300”. E però, alla faccia del catenaccio, quella Juve all’alba degli anni 80 arruolava Bettega, Paolino Rossi, Platini e Boniek, tutti insieme, più Tardelli mezzala d’attacco, Scirea libero di spingersi avanti, Cabrini ala aggiunta. Trapattoni il difensivista, come no. La marcatura a uomo come religione ma - per dire - è stato uno dei primi ad adottare la zona mista in Serie A. “Giuanìn, ti te xe nato pa far 'sto mestiere”, gli disse al fischio d’inizio della carriera il Paròn, Nereo Rocco, il suo padre putativo. Ha allenato per tutta la vita: giocatori, giornalisti, presidenti, tifosi, appassionati, gli italiani in genere. Spesso con modalità complici e carezzevoli, altre volte arrabbiandosi, come nel celebre “Rap del Trap” ai tempi del Bayern Monaco, quel pezzo da disco in cui ripeteva ad oltranza: “Strunz! Strunz! Strunz!”. In ogni caso lezioni di calcio sempre consegnate con il piglio dell’uomo di valore, pane al pane e vino al vino, sfilandosi dall’inutile orpello del superfluo - “I giocatori - amava dire - sono liberi di fare quello che dico io” - gli occhi cerulei a indovinare uno schema, a misurare un orizzonte, a considerare tutta una vita spesa difendendo l’1-0, primo non prenderle, giusto? Non dire gatto, non dire nient’altro.

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