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Napoli-Barcellona, ossia la storia incrociata di due re: Alfonso e Diego Armando Maradona

Gino Cervi

Viaggio tra Napoli e Barcellona tra antichi sovrani per dinastia e monarchi venuti dall'altra parte del mondo a far innamorare una città. Allo stadio Diego Armando Maradona l'andata degli ottavi di Champions League

C’è stato un breve tempo nella storia in cui Barcellona e Napoli avevano lo stesso re. Si chiamava Alfonso che, per complicare la vita a chi ne volesse sapere qualcosa di più, aveva denominazioni diverse a seconda del regno o della contea sui quali esercitava la propria sovranità: infatti era Alfonso V di Aragona, Alfonso III di Valencia, Alfonso II di Sardegna, Alfonso I di Maiorca e di Sicilia, Alfonso IV come conte di Barcellona e delle contee pirenaiche e provenzali di Cerdagna e Rossiglione, quindi anche duca di Atene e di Neopatria in Tessaglia e, finalmente, re Alfonso I di Napoli. Era nato nel 1396 a Medina del Campo, in Castiglia, e apparteneva alla casata dei Trastámara, un ramo illegittimo dei reali di Castiglia. Sempre per alzare il coefficiente di difficoltà araldico-geografico, Trastámara è il nome da una contea della Galizia. In quanto castigliano, Alfonso era dunque cordialmente detestato dalla nazione catalana di Barcellona. Forse anche per questo, una volta ereditata dal padre Ferdinando I la corona d’Aragona, piuttosto che restare a Barcellona, preferì dedicarsi al risiko della conquista di mezzo Mediterraneo. Cominciò con la Sardegna, poi puntò alla Corsica – dove però non riuscì ad avere la meglio sui genovesi – e infine mise nel mirino Napoli e l’Italia del Sud, all’epoca nelle mani di Giovanna d’Angiò-Durazzo, regina senza eredi al trono. A partire dal 1420, ad Alfonso ci vollero oltre vent’anni, e un’infinita combinazione di alleanze e tradimenti, battaglie e assedi, catture, liberazioni e agguati sventati prima di entrare trionfalmente in Napoli, il 26 febbraio 1443 e di inconronarsi re all’ombra del Vesuvio.

Di quella città s’innamorò, al punto da non voler mai più tornare a Barcellona. Lasciò governare i possedimenti della corona d’Aragona alla moglie Maria – di fatto ripudiata, perché sterile – e al fratello Giovanni. A Napoli s’innamorò anche di molte donne: di Margarita Fernández de Hijar, di Gueraldona Carlino – che gli diede l’unico erede maschio, Ferrante – e della giovanissima Lucrezia d’Alagno, che ebbe grande influenza nella corte aragonese di Napoli, fino al 1458, quando Alfonso morì. La corona napoletana passò a Ferrante, mentre gli altri titoli “spagnoli” tornarono al fratello di Alfonso, Giovanni e, poi, attraverso il figlio di questo, Ferdinando d’Aragona, sposo nel 1479 di Isabella di Castiglia, a costituire il regno dei Cattolicissimi re di Spagna.

Cinquecentosessantatré anni dopo, un altro re lasciò Barcellona per Napoli. Si chiamava Diego Armando Maradona ed era figlio di Diego Maradona Senior, un indio guaranì, e di Dalma Salvadora Franco, detta Tota, figlia di emigrati dell’Italia del Sud, ma di ascendenze croate. Diego Armando si lasciò alle spalle due stagioni in blaugrana, 58 partite e 38 gol, una Coppa e una Supercoppa di Spagna, una Coppa di Liga, ma soprattutto un’epatite e una caviglia sinistra triturata da un’entrata terroristica di Andoni Goikoetxea, difensore basco dell’Athletic Bilbao. Ma giunto a Napoli, Diego fu Magnanimo almeno quanto l’Alfonso di mezzo millennio prima.

Se l’Aragonese fece di Napoli una vera e propria capitale mediterranea, accogliendo intellettuali, artisti e gente di commercio, incentivando le manifatture della seta e della lana, favorendo in particolare quest’ultima attraverso la regolamentazione delle attività della pastorizia, El Pibe inaugurò una stagione calcistica mai conosciuta prima: vittorioso in due campagne d’Italia (1986-87 e 1989-90) e una europea (Coppa Uefa 1988-89).

Se Alfonso amava i classici della letteratura al punto che, come racconta il Panormita, suo letterato di corte, guarì da una brutta malattia al solo ascolto di una pagina delle Historiae Alexandri Magni Macedonis di Curzio Rufo, Diego rese illustri i nomi di Peppino Bruscolotti e Giuseppe Volpecina, Nando De Napoli e Costanzo Celestini, Antonio Carannante e Ciro Muro.

Se Alfonso si avvalse di rinomati artisti come Francesco Laurana e Domenico Gagini per la realizzazione del sontuoso Arco trionfale di Castel Nuovo, o si fece immortalare dall’arte raffinata di un Pisanello o di un Mino da Fiesole, Maradona chiamò intorno a sé, per illuminare le sue imprese pedatorie, intrepidi capitani di ventura: l’imperiale Salvatore Bagni e il papalino Bruno Giordano, il paulista Careca e il barbaricino Gianfranco Zola.

Amarono entrambi molte donne, liberamente, e disseminarono la città di eredi, più o meno legittimi. Conobbero la miseria e la nobiltà degli uomini, che a Napoli sembrano sempre ancora più nobili o miserabili che altrove.

Oggi, prima di Napoli-Barcellona, l’Arco trionfale di Castel Nuovo dovrebbe essere teletrasportato per una sera a Fuorigrotta per rendere degno omaggio alle storie incrociate del Magnanimo e del Barrilete Cosmico.

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