(foto Ap)

magazine

Super Bowl 2024, ultimo cortocircuito di un'America divisa su tutto

Marco Bardazzi

A Las Vegas tutto è pronto per per nuova edizione del Super Bowl, una specie di Sanremo che dura un giorno e macina record. Tra politica, i neri, e l’incognita Taylor Swift, anche lei vittima della polarizzazione in cui è immerso il paese

In un’America divisa su tutto, incapace di unirsi come un tempo dietro la bandiera a stelle e strisce o quantomeno nell’aiutare l’Ucraina a combattere Vladimir Putin, erano rimaste solo due certezze. Due realtà che ancora sembravano capaci di superare polarizzazioni e ideologie: il Super Bowl e Taylor Swift. Non più.  L’anno elettorale sta provocando l’ennesimo cortocircuito capace di bruciare anche gli ultimi fusibili che tenevano accese le luci sull’unico luogo rimasto, la finalissima del football, dove si potevano vedere democratici e repubblicani tifare e applaudire insieme. Domenica 11 febbraio, quando andrà in scena l’evento più atteso dell’anno negli Stati Uniti, ciò che faranno in campo i Kansas City Chiefs e i San Francisco 49ers sarà solo una parte della storia. Forse neanche la più importante. Perché stavolta anche allo stadio stanno facendo il loro ingresso la politica, le guerre culturali americane e una buona dose di deliranti teorie della cospirazione alimentate ad arte sui social

 

Partiamo dai fondamentali. Il football è di gran lunga lo sport più amato dagli americani, seguito con largo distacco, nell’ordine, da basket, baseball, pugilato, hockey su ghiaccio, calcio e golf. Visto che negli Usa tutto sembra essere sempre spaccato in due, nel corso della propria storia il football professionistico è cresciuto diviso in due leghe che si contendevano il pubblico. Nel 1967 si cominciò a disputare una finale tra le squadre vincitrici delle due leghe, che poco dopo si trasformarono non più in rivali, ma in due campionati paralleli riuniti sotto l’unica bandiera della National Football League (Nfl). Da allora i tornei, attraverso una serie di passaggi che terminano con play off e finali di conference, arrivano ogni anno a selezionare due squadre che si scontrano in una domenica di febbraio nella finalissima, il Super Bowl.   Niente racconta l’America meglio di questo match che è da decenni l’evento più seguito in televisione e dal 2011 non ha mai meno di 100 milioni di spettatori: cioè un americano su tre quella domenica è sicuramente incollato davanti a uno schermo. Per seguire lo sport, ma anche per la musica – è il più grande evento musicale negli Stati Uniti – e perfino per le pubblicità. Se per 364 giorni l’anno l’americano medio utilizza le interruzioni pubblicitarie in tv per fare altro, c’è questo giorno unico in cui attende con curiosità proprio gli spot. Perché il Super Bowl mette insieme anche il meglio dell’advertisement. Lo show nell’intervallo tra i due tempi della partita è dedicato a una star musicale e fa registrare picchi di ascolto enormi. I pubblicitari invece riempiono le pause che il football concede durante il match vero e proprio e le utilizzano per lanciare nuovi spot creati per l’occasione e pagati a caro prezzo. Lo scorso anno in media trenta secondi di pubblicità costavano sette milioni di dollari, cifra che senz’altro verrà battuta quest’anno. 


La finalissima del football era l’unico luogo rimasto dove si potevano vedere democratici e repubblicani tifare e applaudire insieme


E’ insomma una sorta di Sanremo che dura solo un giorno e macina record. Sette degli otto programmi più visti nella storia della tv americana sono Super Bowl. A parte forse la festa del Ringraziamento, è la sera in cui viene consumato più cibo in tutto l’anno. Nelle case degli americani vengono divorate 1,5 miliardi di ali di pollo e vengono ordinate 13 milioni di pizze, accompagnate da 52 milioni di casse di birra da sei lattine ciascuna. E il sei per cento della forza lavoro statunitense il lunedì mattina si dichiara malato e resta a casa.  Se il Super Bowl è lo specchio dell’America, quello del 2024 fotografa un paese diviso come non mai e in preda a un pizzico di follia. La stagione è innanzitutto riuscita a partorire una finale che sembra fatta per esaltare le differenze tra le “due Americhe”, quella rossa e quella blu. A sfidarsi saranno San Francisco e Kansas City, che incarnano tutto il divario che esiste tra la California delle derive culturali radicali e il Midwest che spinge Donald Trump verso un secondo mandato e accusa la città del Golden Gate di essere un covo di idee “woke” e di drogati. 
A ospitare l’evento sarà una rinata Las Vegas, che dopo l’inaugurazione del fantascientifico auditorium The Sphere e dopo il successo del primo Gran Premio di Formula 1 corso tra i casinò sulla Strip, si toglie anche la soddisfazione di finire sotto i riflettori con la partita più attesa dell’anno. Ma Las Vegas è in Nevada, uno stato conteso nella corsa alla Casa Bianca, dove subito prima del Super Bowl si vota nella più bizzarra e inutile competizione politica del 2024. Il 6 febbraio lo stato ospita le primarie dei democratici, che sono una pura formalità visto il candidato unico Joe Biden, e anche insolite primarie repubblicane dove è in corsa solo Nikki Haley, che non contano nulla perché il partito non le ha riconosciute valide. Due giorni dopo, l’8, si torna al voto stavolta con il metodo dei caucus (le assemblee pubbliche già protagoniste del voto in Iowa) e stavolta c’è solo Trump: l’establishment repubblicano le considera valide, ma non c’è la Haley e non contano quindi quasi niente.   

 

All’Allegiant Stadium di Las Vegas, davanti ai 72 mila spettatori sugli spalti e ai probabili 110 milioni davanti alla tv (il record di 114,4 milioni di spettatori del 2015 potrebbe essere battuto), come sempre ci sarà grande attesa per l’halftime show, lo spettacolo musicale di metà partita. Tutti i grandi nomi del pop e del rock hanno avuto il loro momento epico in un Super Bowl: da Madonna agli U2, da Bruce Springsteen a Lady Gaga, da Michael Jackson a Beyoncè e Rihanna. Stavolta il ruolo di superstar tocca a Usher, che aveva già partecipato nel 2011 insieme ai Black Eyed Peas e a Slash. Un riconoscimento che vale un Oscar e una sfilza di Grammy, ma che rischia di venir messo un po’ in ombra dalla presenza di una collega che, se andrà a Las Vegas, non lo farà per cantare.  Nel Super Bowl numero LVIII (gli americani amano dare numeri romani al football, perché evocano un senso di gladiatori e di Colosseo) la grande protagonista, suo malgrado, rischia di essere Taylor Swift.  La cantante che sta battendo ogni record nella storia della musica è in questo momento il personaggio più popolare d’America. I suoi concerti sono esauriti non appena vengono annunciati, i suoi tour mondiali sono eventi mediatici enormi, il giro d’affari che l’accompagna ha le dimensioni del pil di un piccolo stato e l’ha resa a sua volta una miliardaria. I suoi fan sono bipartisan, gli “Swifties” sono democratici e repubblicani e rappresentano un popolo fedele e appassionato che la segue dovunque. 


Una sorta di Sanremo che dura solo un giorno e macina record. Sette degli otto programmi più visti nella storia della tv americana sono Super Bowl


Ma Taylor Swift in questo momento ha due problemi, se così si possono definire. Il primo è che c’è una parte dell’elettorato di area Maga (Make America Great Again, il movimento di Trump), che la considera una pericolosa democratica. Lei non ha nascosto nel 2020 le proprie simpatie per Biden e ha dato una dimostrazione della potenza di fuoco che possono esercitare i suoi profili social: con un solo post che invitava gli elettori più giovani ad andare a registrarsi per votare, ha mosso in un solo giorno 65 mila persone.  Il secondo problema è che Taylor è una ragazza innamorata e che il suo ragazzo domenica prossima sarà in campo a Las Vegas. E’ Travis Kelce, tight end dei Chiefs di Kansas City e a sua volta star dello sport. Durante tutto il campionato, la cantante si è presentata più volte alle partite e con la sua sola presenza ha praticamente ringiovanito tutto il pubblico del mondo del football, con un gran numero di ragazzi che hanno cominciato a interessarsene solo perché piace alla loro eroina. 

 

Non è sicuro che Taylor Swift sarà presente al Super Bowl, perché è impegnata in tournée, ma la sola ipotesi ha creato un cortocircuito che fa impallidire, al confronto, gli psicodrammi nostrani a base di Ferragnez o di Totti-Ilary. Perché l’ala destra del mondo conservatore ha cominciato a lanciare teorie che dai podcast Maga sono rotolate sul web e hanno fatto capolino anche sui grandi network come Fox News. L’idea di fondo è che la storia Swift-Kelce non sia una vicenda di innamorati, ma un progetto studiato a tavolino da non si sa quali diaboliche menti democratiche per creare le basi per un’operazione destinata ad aiutare la campagna elettorale di Biden. Un amore nato in laboratorio e che, secondo le varie tesi, finirà con un pubblico endorsement per il presidente, forse addirittura di fronte alla gigantesca platea del Super Bowl.  La diretta interessata non ha commentato e tutto fa pensare che voglia tenersi lontano dalla politica. Ma l’incantesimo è rotto e ora anche due istituzioni che univano tutti, il Super Bowl e Taylor Swift, sembrano prigioniere di quella che si preannuncia come una delle campagne elettorali più velenose di sempre. 

 

In campo, intanto, ci sarà da osservare come sempre la sfida tra i quarterback, che da un punto di vista sportivo è una delle principali chiavi di lettura della partita. Ma come tutto il resto del Super Bowl, è anche un interessante spaccato dell’America e delle sue tensioni e contraddizioni. La figura del quarterback, per esempio, racconta tantissimo sull’eterno dramma del razzismo negli Stati Uniti.  Breve spiegazione per chi è digiuno di football. Il quarterback è il punto di riferimento di tutta la squadra, è colui che guida le azioni d’attacco, è l’uomo che sceglie gli schemi, è un superatleta che deve essere veloce, robusto, carismatico, saper giocare nel team, ma stando un gradino sopra a tutti gli altri. Fin dagli anni delle scuole superiori il quarterback è il modello di riferimento per il successo. E’ il ragazzo più popolare della scuola, è il leader a cui affidarsi, oppure è l’arrogante capobanda che abbiamo visto in decine di film di Hollywood. Detto in sintesi: il quarterback per una larga fetta della popolazione americana è un modello di leadership molto più vicino e da imitare che non il presidente degli Stati Uniti. 


A sfidarsi saranno San Francisco e Kansas City, che incarnano  il divario che esiste tra la California radicale e il Midwest che spinge Trump


Cosa c’entra questo con il razzismo? Diciamo che è stato quasi più facile vedere un presidente nero alla Casa Bianca che un quarterback nero a guidare un Super Bowl. E’ un terreno delicato e discutibile, ma in sostanza per un numero non certo secondario di americani i neri vanno benissimo quando si tratta di fare placcaggi, ma in regia ci vuole un bianco, altrimenti gli altri non lo seguiranno. Lo dicono i numeri e lo dice la storia del football. Il 12 febbraio dello scorso anno a Glendale, in Arizona, si è disputato il Super Bowl tra i Philadelphia Eagles e i Kansas City Chiefs, che quest’anno ci sono di nuovo (per la quarta volta in cinque anni). E’ stata la prima volta in quasi sessant’anni della super finale in cui entrambe le squadre sono state guidate da quarterback neri. O quantomeno che si definiscono tali, anche se Patrick Mahomes, la star di Kansas City, è un afroamericano dalla carnagione molto chiara. Quest’anno Mahomes avrà come avversario e leader dei 49ers un bianco, il ventiquattrenne Brock Purdy, alla sua prima finale.

 

 

Fino all’arrivo di Mahomes, l’idea di che tipo di personaggio dovesse essere un quarterback di successo era incarnata da Tom Brady. Bianco, californiano, carismatico, bello, vincitore di sette Super Bowl, incoronato miglior quarterback della storia del football, sposato per lungo tempo con la top model Gisele Bündchen, tendenzialmente repubblicano.  Per tanti americani, fin dagli anni trascorsi sui campi dell’high school o del college, l’idea di seguire come leader e quarterback un tipo “alla Tom Brady” viene più naturale che immaginare di essere guidati da un nero. Fino al 1968 non c’è stato un quarterback nero nella Nfl e anche in quel caso, con Martin Briscoe, durò solo una stagione. Altri casi furono altrettanto episodici e bisogna attendere il 1988 per vedere un nero, Doug Williams, vincere un Super Bowl giocando come quarterback. Nel 2013, quando Barack Obama iniziava il secondo mandato come primo presidente nero nella storia, nella Nfl il 67 per cento dei giocatori erano neri, ma solo il 17 per cento dei quarterback erano afroamericani, mentre l’82 per cento erano bianchi e un restante 1 per cento di altre etnie. Solo tre quarterback neri fino a oggi sono riusciti a guidare una squadra vincente al Super Bowl: Doug Williams, Russell Wilson e Patrick Mahomes. 


Teorie del web: la storia Swift-Kelce non è una vicenda di innamorati, ma un progetto studiato a tavolino per aiutare la campagna  di Biden


 

Lo sport più popolare d’America ha un problema irrisolto con la questione razziale e questo la dice lunga non solo sul football, ma sul paese più in generale. Si capiscono meglio allora, visti da questa prospettiva, i gesti clamorosi fatti qualche anno fa da Colin Kaepernick.  Nel 2012 era diventato il quarterback titolare proprio dei San Francisco 49ers e li aveva portati subito fino al Super Bowl, perdendo la finale contro i Baltimore Ravens. Poteva scrivere la storia del football, un po’ come sta facendo Mahomes, ma nel 2016 ha cominciato a diventare il protagonista di un’altra storia. Alla Casa Bianca in quel momento c’era Trump e nel paese si susseguivano episodi di ingiustizia razziale e casi di brutalità della polizia quasi sempre ai danni di ragazzi neri. Colin pensò di protestare in modo pacifico contro tutto questo, smettendo di onorare l’inno nazionale che viene suonato all’inizio di ogni partita. Prima rimase seduto invece di alzarsi, poi cominciò a inginocchiarsi durante l’inno, gara dopo gara. Un gesto semplice che ispirò molti altri giocatori e contagiò il mondo dello sport. Trump reagì in modo furibondo a quei continui inginocchiamenti e intimò alla Nfl di licenziare i giocatori che aderivano alla protesta. Non fu ascoltato, ma presto Kaepernick si trovò isolato. All’inizio della stagione 2017, si svincolò dal proprio contratto e si presentò come agente di sé stesso. Nessuna squadra lo ingaggiò e da allora non ha più giocato.  A ingaggiarlo invece fu la Nike l’anno successivo, lanciando una campagna con il volto di Kaepernick accompagnato dalla frase: “Credi in qualcosa. Anche se significa sacrificare tutto”.  Non è quindi certo la prima volta che la politica entra nel football e al Super Bowl. Stavolta però lo fa in modo bizzarro e con il cinismo di chi non crede più neanche alle storie d’amore. 

Di più su questi argomenti: