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La corsa leggera e scalza di Abebe Bikila fece la storia dello sport

Gino Cervi

Cinquant'anni fa ad Addis Abeda moriva il maratoneta che vinse la medaglia d'0ro alle Olimpiadi di Roma 1960 e Tokyo 1964

Il 25 ottobre 1973, ad Addis Abeba, moriva a soli 41 anni Abebe Bikila. Tredici anni prima, a Roma, aveva vinto la maratona alle Olimpiadi.

Un po’ frettolosamente si scrive che Bikila fu la prima medaglia d’oro olimpica del continente africano. Non è così. Prima di lui salirono il più alto gradino del podio atleti sudafricani – primo fra tutti Reggie Walker che ai Giochi di Londra, nel 1908, vinse nei 100 m a soli 19 anni: ancora oggi il più giovane centometrista olimpico di sempre – e, ad Amsterdam nel 1928, due egiziani: El-Sayed Nosseir, nel sollevamento pesi, categoria massimi-leggeri, e Ibrahim Moustafa, nella lotta greco-romana, categoria medio-massimi. In quell’edizione, l’oro l’avrebbe vinto anche il tuffatore Farid Simaika, dalla piattaforma, ma fu retrocesso al secondo posto per un errore dei giudici. Per restare alla maratona, altri due atleti africani vinsero prima di Bikila: Ahmed Boughéra El Ouafi, sempre ad Amsterdam nel 1928, e Alain Mimoun, a Melbourne nel 1956, correvano per la Francia ma erano nati in Algeria, allora ancora colonia francese.

Per essere corretti si può dire quindi che Bikila, etiope di etnia oromo, è stato il primo campione olimpico africano, subsahariano e non bianco. Nessuno però può togliere ad Abebe – che molti ritengono il più forte maratoneta di tutti i tempi – il record di essere stato il primo a vincere una maratona olimpica per due volte consecutive: dopo Roma, fu il migliore anche a Tokyo, nel 1964.

Ma è in quell’incredibile notte romana del 10 settembre 1960 che Bikila si consegna al mito sportivo. Per la prima volta nella storia delle Olimpiadi una maratona non si conclude dentro a uno stadio. I 42.195 m si corrono dal Campidoglio al Colosseo e per un lungo tratto sul bimillenario basolato della via Appia Antica. La partenza è alla sera e ai colori infuocati del tramonto romano via via si sostituiscono i fuochi delle torce che punteggiano il percorso. Il traguardo è invece illuminato a giorno da grandi riflettori.

Di Abebe Bikila non si sa molto, anzi si è pure incerti su quale sia il suo nome e quale il cognome. 28 anni – era nato il 7 agosto 1932, nello stesso giorno in cui a Los Angeles si correva la maratona olimpica: forse un segno –, ufficiale dell’esercito abissino che per la prima volta ha lasciato i suoi altipiani, questa è soltanto la sua terza maratona. Indossa una canottiera verde e dei pantaloncini rossi; gli viene pinzato il pettorale numero 11. Tutti vedono però che ha deciso di correre senza scarpe. Ha il viso stretto e affilato della tribù degli scioani, avanza a piccoli passi e non bada più di tanto alle sfolgoranti luci della sera, alle eccitate grida della folla lungo la strada. Prima del via, il suo allenatore, lo svedese Onni Niskanen, gli ha detto di tenere d’occhio più degli altri il marocchino Rhadi Ben Abdesselam.

Fino al km 15 la corsa è sotto controllo, nessun allungo, nessuno strappo. Poi i migliori cominciano a forzare l’andatura e il gruppo si screma. Qualche decina, poi una dozzina, infine un quartetto: oltre al marocchino da tenere d’occhio, l’inglese Kiley, il belga Van den Driessche e proprio Bikila. Ai 20 km la corsa diventa un testa a testa: Rhadi Vs Bikila. A Porta San Sebastiano, quando manca poco più di un chilometro all’arrivo, il marocchino tenta l’allungo. È un bluff, perché si vede che non ne ha più. Bikila gli risponde e va via. Davanti al palazzo della FAO sfiora l’obelisco di Axum, depredato nel 1937 dalle guerra coloniale di Mussolini. Corre leggero e scalzo Bikila, quasi sospinto dagli applausi del pubblico assiepato sul percorso. Taglia il traguardo, accenna solo timidamente ad alzare le braccia. Si ferma poco oltre sotto il fornice dell’Arco di Costantino. Il tempo cronometrato a 2h15’16” fa segnare il nuovo primato mondiale.

Nel 1964, a Tokyo, Bikila è reduce da un’operazione di appendicite e non viene dato tra i favoriti. Questa volta però decide di indossare un paio di scarpette. Ma il risultato non cambia: ancora una volta stabilisce il record del mondo (2h12’12”), avendo la meglio prima sull’australiano Clarke, che parte fortissimo ma cede alla distanza, quindi sul giapponese Tsuburaya superato all’ultimo giro di pista dal britannico Heatley. Tragica la sorte che attende il maratoneta nipponico. Ferito nell’orgoglio per quella medaglia d’argento sfumata di poco, promette a se stesso di riscattarsi nelle successive Olimpiadi, ma quando pochi mesi prima dei Giochi di Città del Messico viene messo fuori causa da un infortunio, come un antico samurai si toglie la vita.

Ma non è meno drammatico il destino di Bikila. Ritiratosi alla maratona di Città del Messico, nel 1969 in un incidente d’auto si schianta la spina dorsale e rimane paralizzato proprio alle gambe che lo avevano fatto volare. Non perde però la voglia di gareggiare: si cimenta nel tennistavolo e, ai Giochi Paralimpici di Heidelberg, nel 1972, partecipa alle gare di tiro con l’arco.

Ma evidentemente la sfortuna ha con lui un conto in sospeso: l’anno dopo, il 25 ottobre 1973 viene stroncato da un’emorragia cerebrale.

Sulla sua tomba, ad Addis Abeba, si legge un’epigrafe in tre lingue: amarico, italiano e giapponese. Nell’estate del 2022 a Roma gli è stata intitolata la strada che collega via Laurentina a via Tor Pagnotta, dove lo ricorda anche una targa apposta dall’Ambasciata d’Etiopia.

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