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La Tammuriata Nera dello scudetto del Napoli

Marco Ballestracci

Viaggio musicale in una città che festeggia una vittoria in campionato che mancava da trentatré anni

Uno dei grandi quesiti del calcio moderno è: “Ma come accidenti fa un allenatore a parlare con tutti i giocatori della rosa se vengono da venti parti del mondo diverse? In che lingua parla per spiegare gli schemi?”. In effetti deve essere un bel problema, tuttavia ci sono luoghi d’Europa in cui il grattacapo è minore. E’ sufficiente scendere alla stazione di Napoli Centrale (per gli appassionati già il nome è musica) e uscire in Piazza Garibaldi per capire che, volendo, ci si intende piuttosto bene anche se non si parla la medesima lingua. Quando ci sono capitato la prima volta e l’ho attraversata, immediatamente m’è saltata in mente la musica dei Tinariwen: la musica dei touaregh, semplicemente perché raccoglie in se stessa tutta la musica dell’Africa Settentrionale e tutti vi si identificano senza confini geografici o distinzioni.

  

Anche in “Tammuriata Nera” ci si identificano tutti. Chi guarda e racconta: “Ca tu chiamme Ciccio o N’tuono, ca tu chiamme Peppe o Ciro, chillo, o fatto, è niro, niro. Niro, niro comm’a che!”; il soldato afro-americano della Novantaduesima Divisione di fanteria che ha dato solo una guardata (nel senso d’uno sguardo) e la donna è rimasta impressionata; nonché Gaetano James Senese che è, appunto, il frutto dell’impressione. Ma Gaetano Senese non è affatto solo, perché, come dice la canzone: “Sti fatte no su rare, se ne contano a migliare!”.

 

     

Tuttavia sino a qui non s’è scoperto nulla di nuovo. Nulla che non avesse già immortalato John Turturro nel suo splendido film-documentario “Passione” che l’attore-regista introduce così: “Napoli. Una città sopravvissuta a terremoti, colate laviche, invasioni straniere, crimini, corruzione, povertà e abbandono. Ma allo stesso tempo ha prodotto valanghe di musica attraverso i secoli. James Brown la chiamerebbe 'il centro della canzone' in grado di modulare l’intera gamma dei sentimenti umani”.

 

Ma se non bastano le parole di Turturro per essere sicuri che questa sia la verità, basta girare per la città e, in un giorno infrasettimanale, infilarsi nella Cattedrale di Santa Maria Assunta – più familiarmente chiamata Duomo. Là, se si ha fortuna, s’incapperà in delle sante donne che tutt’intorno all’altare ribattono con un’incomprensibile risposta a delle altrettanto incomprensibili (se non si è di Napoli) chiamate d’un sacerdote. E’ il medesimo meccanismo di chiamata e risposta che saliva dai campi in cui lavoravano prima di essere arruolati i ragazzi della Novantaduesima Divisione di fanteria. Ora quel meccanismo, dopo così tanto tempo dal passaggio della fanteria americana, si potrebbe tranquillamente definire “rap” e non ci sarebbe nulla di strano, a mio avviso, se al posto del sacerdote ci fosse Raiz degli Almamegretta a intonare le chiamate, come stesse muezinando "Me chiammo Sanacore e che vulite?". Sono quelle particolari situazioni in cui si finisce per dire: “Se nelle chiese facessero queste cose io sarei il primo dei fedeli”. Frase che si ripete sempre laddove impera il sincretismo religioso e in cui il sentimento s’accompagna alla musica. Luoghi creoli come New Orleans o come dove si canta: “Sé! na guardata, sé!. Sé! Na impressione, sé. Va truvanno mo chi è stato: chi ha cogliuto buono o tiro. Chillo o fatto: è niro, niro. Niro, niro comm’a che!”. James Brown la chiamerebbe “il centro della canzone”, dove grazie alla musicalità tutti comprendono tutto. Che siano georgiani come Kvara, nigeriani come Osimhen, coreani come Kim o cimut come Meret.

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