Ambrogio Beccaria a bordo di “Allagrande Pirelli” in una foto di Martina Orsini 

Solitario ma non troppo

In barca col campione Ambrogio Beccaria, nuovo campione italiano della vela oceanica

Michele Masneri

Colpiti da un insolito acquazzone in un azzurro mar dei Sargassi. L’equipaggio di nerd, Guadalupa con inflazione da Weimar, un cotton fioc gigante contro le alghe. Cosa può andare storto?

Ambrogio Beccaria è il nuovo Soldini, il nuovo asso della vela italiana. A poco più di trent’anni (è del 1991) è arrivato secondo alla Route du Rhum, fondamentale competizione che si svolge in solitaria tra Francia e Caraibi, e primo alla Mini-Transat, altra  regata in solitaria dalla Francia a Guadalupa: mai vinta da un italiano, sempre e solo dai francesi. In questi giorni sta gareggiando (in testa) verso le Azzorre nella prima tappa della “Défi Atlantique”, altra gara tipicamente francese, a bordo della sua barca ipertecnologica “AllaGrandePirelli”. Insomma, pur se italianissimo, anzi milanese, lui si sente un po’ francese, nel senso che rifiuta un po’ l’idea del velista classico italiano , fighetto col maglioncino sulle spalle. I francesi sono più rustici, dice. Questa volta è col suo equipaggio, ma lui è soprattutto un navigatore solitario, fa cioè delle micidiali traversate oceaniche da solo su una barchetta lunga poco più di dieci metri. Ha cominciato a undici anni, da bambino, alla scuola Velamare alla Maddalena, e non ha più smesso.

 

Quando l’ho conosciuto, l’anno scorso, l’unico navigatore solitario che avessi in mente era quell’aristocratico sfessato interpretato da Alberto Sordi nei “Nuovi mostri”, poi ho scoperto che quel personaggio è molto amato tra i velisti alla Beccaria. Il quale  a differenza del Sordi cinematografico non è un debosciato bensì un serissimo ingegnere (a 19 anni si è trasferito alla Spezia per studiare lì), non si ispira a eroi maledetti, avrebbe potuto aprire come tutti la sua startup a Milano, anzi è l’unico trentenne non ceo di qualcosa a Milano.

   
Invece è fuggito. I suoi idoli sono  ruvidi marinai bretoni – vive infatti rusticamente in Bretagna; le sue barche se le costruisce da solo, partendo dalla prima, una carcassa recuperata a Lisbona. “Noi eravamo  molto perplessi”, mi ha raccontato sua mamma. Che mi ha detto anche: “Ma non poteva drogarsi come tutti a quell’età?”, insomma i suoi, buona borghesia milanese, non erano molto contenti, poi hanno capito che questo figlio ingegnere poteva cavarsela anche lontano dall’area C. Vi chiederete a questo punto come mai parlo di un velista, se ho avuto la crisi di mezza età, se punto a diventare uno di quei reporter di vela dalla perenne abbronzatura che si spostano da Olbia a Barcellona. Magari. No, sono stato praticamente sorteggiato in quanto una delle persone che meno ne sa al mondo di vela, uno dei più goffi a montare su qualunque natante, figuriamoci una barca da competizione. Così mi hanno spedito a Guadalupa per andare a vedere Beccaria nel suo ambiente, nell’oceano, realizzando uno speciale per Sky Sport che uscirà tra un po’. Già sento: beato Masneri ai Caraibi, ma aspettate a giudicare. Ecco allora che mi appresto a prendere un volo notturno per Parigi, dove come noto ci sono i tumulti, i voli vengono continuamente cancellati, per sicurezza parto da Milano la sera prima, mi mettono a dormire in uno di quegli hotel aeroportuali (forse la nemesi, qualche tempo fa dicevo di volermi trasferire in un hotel d’aeroporto, mi rimangio tutto). La vista sullo strapiombo del ventesimo piano e il ronzio degli aerei a Orly mi hanno fatto cambiare idea. L’aeroporto è deserto per gli scioperi anti Macron che infiammano la città. Pensavo, chi mai andrà a Guadalupa un lunedì di fine marzo? Mi sbagliavo. L’aereo Air Caraïbes è pieno di arzilli vecchietti che quando si appresta all’atterraggio cominciano a sciamare verso i bagni, togliendosi di dosso maglioni e sciarpe e uscendone con sfavillanti magliette e bermuda a fiori. Età media, novanta. Sono tutti habitué. L’arrivo a Guadalupa è surreale: intanto lo sbalzo termico, dalla gelida Parigi ai ventotto di qui. Poi Guadalupa è ufficialmente Francia a tutti gli effetti, quindi c’è l’Euro, basta la carta di identità, i telefoni prendono benissimo col roaming europeo.

  
Appena atterrati, vado subito alla farmacia di Pointe à Pitre, la capitale, per cercare il farmaco contro il mal di mare. Ambrogio mi ha annunciato che generalmente tutti sboccano a bordo, che c’è un secchio sempre pronto, quindi è meglio dotarsi in particolare di un farmaco. Xamamina? No, scopro che i navigatori solitari hanno una speciale classifica; al primo posto sta Stugeron, la Rolls Royce degli antinausea, che si trova soprattutto in Svizzera. Lui generalmente prende qualcosa che si chiama come Calmer,  crasi di “calme” e “mer”. Ovviamente nessuno dei due si trova qui ma mi danno una più comune Xamamina. Lui si raccomanda di prenderne in abbondanza. Compro anche un solare filtro 50, ottimista, non sapendo che pioverà tutto il tempo. Posso pagare con il pos? Certo, non c’è problema. La prima particolarità è che pago tipo 50 euro, penso si siano sbagliati, invece no. Poi compro due banane: sono otto euro. Pago col pos anche dal fruttivendolo improvvisato fuori dall’aeroporto. Scopro immediatamente che a Guadalupa c’è un’inflazione bestiale, e costa più che a Parigi.

 

Poi vado in albergo. Il valoroso tassinaro guadalupense ovviamente ha il pos, spendo più che per Fiumicino. Attorno scorrono tantissimi negozi di ottica, tantissime farmacie e parafarmacie e poi banche e bancomat in quantità impressionante: il turismo anziano è protagonista su quest’isola, anche poi in albergo: vecchietti con le pance che si arrostiscono al sole, francesi col cappellino e la gambetta, pare un romanzo di Houellebecq. Poi ci sono tante autoscuole, lavaggi auto, concessionari di auto. L’auto è un grande status symbol a Guadalupa, mi dice il tassista. Del resto senza auto dove vai?  Mi deposita nella zona del Casinò di Pointe à Pitre. L’albergo sgarrupato costa duecento a notte (venticinque la prima colazione, extra). E’ una Weimar caraibica. Una costruzione in stile socialismo reale con bellissima vista mare, sembra un po’ Lamezia Terme per il non finito architettonico, e sarebbe un set perfetto per quei film con pochi dialoghi. Dal portico brutalista con finestroni esagonali entrano le palme e stormiscono tantissimi uccelli. In albergo c’è pure un convegno sull’empowerment femminile e in ascensore incontro vari componenti di squadre della nazionale della Barbados e di Papua, una specie di super Lega caraibica.  Faccio subito un bagno in piscina, ma è talmente clorata che dopo una vasca inizio a grattarmi compulsivamente. E poi comincia il primo di una serie infinita di temporali. 

 

Il primo giorno insieme alla troupe di Sky facciamo i sopralluoghi e andiamo a incontrare Ambrogio che nel frattempo risponde poco al telefono, alle mail, ai messaggi. Ci buttiamo in un traffico che nemmeno sul Gra alle cinque. I semafori sono tutti spenti e le precedenze non molto rispettate. Ci sono galli ovunque, ai margini delle strade, in mezzo alle strade, in albergo. Sembra Malindi. La Malindi dei francesi. Ci inerpichiamo tra magnolie, enormi autolavaggi, palmizi, carcasse di auto, e ci perdiamo in una foresta. Chiediamo informazioni a un vicino: è un vecchio creolo simpatico, non sa nulla di Beccaria, gli dico “champion de voile”, spero si dica così, dopo un po’ capisce qual è la casa, quella con la piscina, ah sì, ci sta una mia cugina, ci dà le indicazioni, non prima di averci offerto varie tipologie di rum autoprodotto, alle dieci di mattina, per cui con la troupe ripartiamo più allegri e finalmente troviamo la casa. Eccolo, Ambrogio: è scalzo, arruffato, sta da tre mesi, quando è finita la Route du Rhum, in un piano terra di una villetta che sembra una casa mobile, tra le palme e le magnolie. Calzini e bottiglie di birra in giro per casa, lui e il suo equipaggio, Gianluca Guelfi che è pure lui ingegnere e ha progettato la barca, occhialuto, vive come Ambrogio a Lorient, in Bretagna, il nuovo covo di tutti questi navigatori mondiali giovani. Poi c’è Alberto Riva, ingegnere pure lui specializzato in nanotecnologie, responsabile dell’elettronica della barca. Dire che siano dei nerd è dire poco: parlano solo di barche, di nodi, e di altre cose incomprensibili. Più che una boyband sembrano tre studenti fuorisede che preparano un esame. Stanno sempre tra loro, sono simili anche di statura. A terra, oltre a una serie di magliette sporche accatastate, carte nautiche, computer, c’è un’inquietante distesa di buste colorate di plastica divise per giorno, sono i cibi liofilizzati o sottovuoto che mangiano giorno per giorno a bordo. Sembrano mangimi per animali: “pollo e porcini”, indica una, una “crema parmentier” l’altra, e altre leccornie in polvere. Ma dove le compra mai? C’è tutto un mercato segreto dei velisti, questi li prende da una signora in Bretagna che si è inventata questo business, mi dice Beccaria. Tutto è calcolato secondo le calorie, e il peso, deve pesare pochissimo per rendere la barca più performante. Poi però per non sbroccare a bordo ogni tanto si “premia” con un risotto, alla milanese ovviamente, che si cucina su una speciale pentola a pressione basculante, da lui progettata, vedrai, vedrai, mi dice, con tono inquietante. Da mesi mi racconta di questo cibo che mangiano a bordo, e del sonno: lui dorme in un anfratto sotto la chiglia a poppa, una specie di bara in vetroresina dove si infila (me l’ha fatta vedere a Genova in cantiere quando la barca era in costruzione). Lì fa dei sonni da dieci minuti, “cluster nap”, o pisolini a grappolo, perché soprattutto se naviga in solitario non può certo abbandonare il controllo. In questi pisolini sogna tantissimo, mentre a terra zero, mi dice. In realtà quando è in mare pare che risponda anche in tempo reale a mail, messaggi, telefonate, sulla terraferma un po’ si spegne. Si raccomanda di prendere la medicina per il mal di mare.

 

La notte però causa jet lag la passo a leggere i forum di quelli che si trasferiscono in Guadalupe. Nel grande stravolgimento post Covid tantissimi francesi, ma anche belgi, attirati dal clima caraibico, dalla natura, vengono qui a cambiare vita. Quasi tutti però poi si pentono. Tra i motivi, l’acqua corrente spesso interrotta, i galli dei vicini che ti tengono svegli, e il razzismo verso i bianchi. I guadalupensi infatti sono molto scocciati con gli europei soprattutto negli ultimi anni e col lockdown (han dovuto farlo pure loro, non gli è piaciuto). E poi i prezzi.  
 

L’appuntamento è allo yacht club di Pointe à Pitre. Il centro della città è abbastanza abbandonato, sembra il Tenderloin di San Francisco, c’è la cattedrale, c’è il mercato delle spezie dove i turisti anziani francesi vengono subito assaliti dalle venditrici di vaniglia e pepe. Ci sarebbe il museo di Saint-John Perse, leggendario poeta e diplomatico locale che tramò contro Hitler e prese il premio Nobel, ma la costruzione graziosa a due piani che lo ospita è chiusa, pare per sempre, c’è un cartello “pericolo tifoni”.

  
Come yacht club io mi aspetterei gente elegante che passeggia col foularino sorseggiando Bellini tra le barche tipo Porto Cervo, invece lo yacht club di Pointe à Pitre consiste in un piazzalone di cemento tra una costruzione a tre piani abbandonata e istoriata da writer o graffitari, e un ristorantino dove ci rimproverano subito perché gli occupiamo i posti auto. Allineate ci sono le barche che compiranno la nuova sfida: oltre ad AllaGrandePirelli ci sono Axel Tréhin (“Project Rescue Ocean”), vincitore della Normandy Channel Race 2021; Ian Lipinski (“Crédit Mutuel”), vincitore tra le altre della Transat Jacques Vabre nel 2019 e detentore del record di velocità nelle 24 ore a bordo di un Class40 (realizzato in equipaggio con Beccaria); Brian Thompson (“Tquila”), vincitore della Volvo Ocean Race nel 2006 a bordo di “ABN AMRO One”. Io arrivo barcollante, rincoglionito, dopo la colazione pagata 25 euro mi sono preso ben due xamamine, che mi danno un piacevole senso di rintronamento. Forse anche allucinazioni? Vedo infatti un corteo che canta degli strani slogan e sfila dall’altra parte del porto, ma non sento bene. Penso a qualche cerimonia religiosa, il dronista (c’è anche un dronista, per fare le riprese), mi spiega la faccenda.  Il dronista è un ex pilota di elicotteri che si è riciclato venendo a vivere qui a Guadalupe.  Mi racconta che la manifestazione è dei rocciosi compagni antillani che protestano contro Macron. Siccome siamo a tutti gli effetti in Francia, ecco che ci sono le proteste pure qua (ai Caraibi chissà a che età vorrebbero andare in pensione). “Prima volevano tutti essere francesi per la sicurezza sociale, gli stipendi, eccetera, adesso non vogliono più essere francesi”, dice il dronista. Intanto la parcheggiatrice inizia a cazziarci. “Ah le donne guadalupensi!” scuote la testa  il gommonista (c’è anche un gommonista): pare che le donne guadalupensi siano cattivissime (anche il gommonista è fuggito dalla Francia, loro non lo chiamano south working ma “tropicalisation”, lui sospira, “ah, la tropicalisation”, ha un’aria sdrucita, da figaccione, ma denti in disordine; va bene la sanità gratuita francese, ma poi il dentista caraibico come sarà? Sta tropicalisation insomma non mi convince).

 

Davanti al porto ci sono vari pescatori improvvisati. Uno per attirare la clientela fa risuonare un canto in una grande conchiglia ogni tre minuti e ci rimbomberà nelle orecchie per tutto il tempo.  Io intanto sempre barcollante mi aggiro sul molo scalzo: non sapendo bene come vestirmi, avevo come opzione delle scarpe da barca Sperry ma poi siccome Ambrogio l’ho visto scalzo ho pensato di fare così anch’io. Ovviamente lui indossa invece comode sneakers, come il resto dell’equipaggio, e mi ride in faccia: ma dove vai, guarda che così ti saccagni tutto, mi dice milanesemente (partiamo bene insomma).  Certo è ’na faticaccia. Per uscire dal porto serve un’ora, bisogna preparare la barca, poi accendere il motore, poi, usciti dal porto, alzare le vele, con una serie di cordicelle multicolori stranissime che si tirano e si mollano dal – questo è l’unica nozione che avevo – pozzetto. Lui ha un suo fornitore speciale di queste corde, naturalmente. Pure il motore (molto rumoroso, da trattore) si comanda con una cordicella, che ha delle palline e sono le marce. Forse la vela ha qualcosa in comune col bondage. Però Ambrogio e il suo equipaggio mi sembrano esseri eterei, asessuati, che parlano solo di barca, di nodi, di previsioni del tempo. Intanto lui tenta di farmi imparare qualcosa: occhio al boma, mi dice, il boma è quel palo che oscilla in maniera micidiale e prima o poi te lo ritrovi in testa. Poi mi dice qualcosa a proposito di una  “drizza”, e poi altri termini incomprensibili, parla di “winch”, capisco che la drizza è una vela, e tiro su fortissimo una vela che è pesantissima. Seguono altri nomi mai sentiti  (lui e i suoi due compari continuano  a parlarsi in questo vocabolario che gli altri non capiscono) e una fatica fisica allucinante. Penso: ma queste cose nelle vere barche a vela, cioè quelle dei ricchi, le faranno i marinai. O saranno elettriche. Poi lui mi sposta e vengo sostituito da un altro dell’equipaggio: a cui ordina di drizzare ma il drizzatore si sposta, portandosi dietro la manovella del winch. Chiedo timidamente se il winch non sia l’argano, loro mi guardano con pietà, sì, è l’argano.   

Comunque l’altro dice: “sto drizzando!”, insomma capisco che la drizza non è una vela specifica. La drizza è ovunque si faccia molta fatica.  La drizza è dove drizzo io, per citare un altro celebre velista italiano con vocazione adulta. Nel frattempo Ambrogio impartisce altri ordini in codice. “Riempi i balast! Così andiamo più veloci”. Che sono i balast? I balast sono serbatoi che riempi d’acqua. Ah, per rallentare, dico io, che ho fatto il liceo classico e sono stato pure rimandato in matematica.  “No, per andare più veloci!”. Ma come. La vela, spiega allora l’ingegner Beccaria, si misura in quanto riesci a contrastare la forza che ti vuol far sbandare. Dunque più pesante sei e più vai veloce, grosso modo. Ma prima dei balast devi spostare i pesi. A proposito, andiamo sotto. Cominciamo a spostare i pesi da una parte all’altra. “Tra l’altro ti conviene perché sta per piovere. Tra cinque minuti”, dice sicuro lui. Ma non ci sono nuvole. Lui mi spiega che invece sì, lo capisce dal cielo nero in certi punti e poi mi impartisce una lezione tra nuvole cumuliformi e nembiformi che mi rimandano allo studio della geografia delle medie e mi parla delle “polari”, una roba complicatissima che si fa con un software specifico. 

 
 Dopo cinque minuti esatti arriva un micidiale scrollone. Lui rimane impavido e quasi contento e io mi rifugio sottocoperta. Quello è il momento in cui capisco che è veramente pazzo. La barca, nel frattempo abbiamo preso velocità, sbatte sulle onde violentemente, tutta rigida com’è di vetroresine fatte per andare forte. “Ma se siamo praticamente fermi”, dice lui. Soprattutto mi viene una botta di claustrofobia bestiale: l’idea che lui ci faccia una traversata di due settimane in mezzo all’oceano mi devasta. Dai, su, aiutami, dice, spostando pesantissime vele da una parte all’altra. Mentre io penso mentalmente al fisioterapista (avrò ancora il suo numero?), mi mostra il “dentro” dello scafo. Per entrare mi sono dovuto contorcere – i velisti ho capito che devono essere piccoletti perché sennò ti spezzi la schiena a entrare sottocoperta (sì, un po’ come i fantini, mi dice Ambrogio). Ecco il pouf di Fantozzi in cui dorme. Ecco il secchio che serve a recuperare l’acqua desalinizzata che bevo quando sono in traversata. E’ un secchio normale, azzurro. Poi, appeso, tra numerosi servocomandi e centraline dall’aria super tecnologica, c’è appeso un rotolone di carta igienica. A quel punto gli faccio la fatidica domanda… ma per… come fai? “Nel secchio”. Sempre quello dell’acqua desalinizzata?  “No, no, un altro”. Però di secchio ne vedo solo uno. Intanto continua a chiedermi come mi sento. Di mal di mare neanche un po’. Invece una certa sonnolenza. Mi stendo un attimo sul pouf. Mi ritroveranno dopo un’ora, praticamente svenuto, mentre loro fuori stanno drizzando a tutta birra.

 

Lui invece con una specie di enorme cotton fioc sta armeggiando a poppa. Che fai, gli dico, mentre continua a diluviare. “Eh, le alghe!”. Eh, vabbè, che sarà mai. Lui detesta le alghe, mi dice, anche nuotando, ritrovandosele tra i piedi, gli fanno schifo, ma è già tanto che gli piaccia stare in acqua perché per quegli strani paradossi ai velisti, dice, non piace l’acqua (sarà come quella storia dei comici tristi).  Queste alghe sono anche dette sargassi, da cui il Mar dei sargassi, e anche quel romanzo, i sargassi sono un pericolo per la navigazione. In effetti anche “France Antilles”, il quotidiano di Guadalupa, oltre a dar conto della rivolta dei lavoratori antillani contro la riforma delle pensioni di Macron, mette in prima pagina il problema dei sargassi, per cui il ministro dell’Oltremare, Jean Francois Carenco, ha annunciato una specie di Mose che servirà per bloccarli.  Così Ambrogio prende il grande scovolino anti sargassi,  lo spinge sotto la poppa e smanetta tirando fuori ciuffi verdi,  poi in porto uno dirà “ah, les sargasses!”, eh gli altri velisti, eh sì, sono proprio una piaga contemporanea.

 

A bordo, che fa, nelle grandi traversate? Libri non ne legge, non riesce a concentrarsi, perché la barca ha costantemente bisogno di attenzioni. E per non finire giù tra i sargassi. Lui è contento solo ora, quando la barca si impenna tutta da una parte – ci sarà sicuramente un termine tecnico – e sembra capottarsi, ma non si cappotta, spiega lui, anche se io, seduto nel pozzetto, sono ormai tecnicamente sotto il livello del mare, ricoperto di spruzzi e secchiate d’acqua. Altro che solare 50.

 
Ma ove mai si cascasse di sotto, chiedo? Hai pochissime possibilità di salvarti. Perché anche se ti vedono non è che fai marcia indietro, ora che smonti le vele, rimonti quelle giuste, fai la virata, il poveraccio è bello che stecchito. E non tanto per annegamento, quanto per le temperature. Ma non avete un dispositivo, qualcosa? “Sì certo”, dice tutto contento, una specie di Gps, ma che in gergo si chiama “il ritrovacadaveri”. Ottimo. Adesso si che sono tranquillo.

 

Dopo qualche giorno in navigazione, racconta, si diventa un po’ animali. Dopo qualche giorno cominci a distinguere meglio tutti gli odori. Dice che sente le Azzorre, che hanno un odore particolare. Che ogni isola ha il suo odore. Quello peggiore? Quello delle balene, se le incontri te ne accorgi. E l’odore di Milano? Ride. Che poi c’è questo mistero che i più grandi velisti italiani son spesso milanesi… forse è l’arte della fuga che aguzza l’ingegno. però lui non pare in fuga da nulla, gli piace così e basta. Dice che l’odore di casa per lui è piuttosto quello del Mediterraneo, un odore del tutto diverso dall’oceano. E pure l’acqua! Ha tutto un altro sapore. Quella del Mediterraneo è molto più salata di quella dell’oceano. A proposito, assaggiala, mi fa. Io sono un po’ perplesso, rimane il mistero del secchio multiuso. Assaggiala, assaggiala. L’acqua desalinizzata del secchio sa un po’ di plastica, e non di altre cose per fortuna. Ha la caratteristica di essere priva di sali minerali, infatti loro ci aggiungono un po’ di Polase. Adesso a proposito vuole farmi vedere come si fa il famoso risotto, su una pentolina appunto basculante che si è costruito da solo su una specie di Campingaz, quei fornelletti che si usavano  in campeggio. Buttiamo l’acqua desalinizzata   dopo aver messo a soffriggere le cipolle e calato un po’ di riso basmati, un saccone costato 30 euro che spero la produzione mi rimborserà, al famoso mercato delle spezie di Pointe à Pitre. Il riso Ambrogio lo tiene in  una gran sacca gialla, una specie di borsa di Mary Poppins dove stanno: l’immancabile rotolone di carta igienica, un piccolo flacone di detersivo per biancheria che a occhio e croce non sembrano usare molto, degli strofinacci personalizzati col logo Allagrande che ha fatto la mamma di uno dei suoi soci. Gli dico, ah, questa è la cambusa, e mi ride di nuovo in faccia, “cambusa non è un luogo fisico, si dice  fare cambusa”, sì grazie, ma questo saccone da cui stiamo estraendo le cose allora come si chiama? “Niente, è una sacca”, dice lui tutto divertito. Tra girare un winch, drizzare una drizza, cambuse che non lo sono, forse la vela è dare  nomi strani alle cose.

 

Affettate le cipolle, direttamente sulla struttura della barca, a mò di tagliere, butta le bucce a terra, che poi finiranno in acqua, tra i sargassi. Tra bucce, secchi, gps e pouf questo ci passa settimane da solo nella barca super tecnologica che pare un giocattolone. Chissà cosa lo muove: “sono un po’ Peter Pan” confessa lui di sé, di sicuro questi navigatori hanno realizzato il loro sogno di salire sulla casetta sull’albero e non scenderne più.  

 

Il riso poi verrà così così, una specie di stufato, ma si capisce che abituati ai cibi liofilizzati dopo giorni di navigazione sembrerà una leccornia. Ammainate le vele, c’è un momento perfetto: il silenzio, il mare, e niente capovolgimenti né acqua in faccia. “A te piace andare in gita”, mi dice Ambrogio constatando la mia estasi, lui che invece cerca l’avventura e la velocità, e forse fugge da questo, dalla noia. Io   capisco che sì, mi piace la gita, che non diventerò mai un velista, al massimo un diportista della domenica, e comunque la vela è come lo sci: complicatissimo da organizzare, poi il momento più bello è quando ti togli gli scarponi al rifugio.

 

In porto, mentre il pescatore continua a suonare la sua conchiglia, Ambrogio e i suoi adocchiano una specie di homeless nero gigante che sta pescando letteralmente tra le barche un enorme pesce tipo  spada. “Grigliata!”, urlano, insieme, e mi trascinano da questo inquietante pescatore che nel frattempo sta finendo il pesce con un coltello da cucina. Scopriamo che il pesce in questione si chiama tarpone, googliamo, pesce che si distingue per l’età, campa fino a 65 anni, ed è molto difficile da prendere, perché atletico, dunque dalle carni toste. “Non si mangia”, è la vulgata; e Internet lascia all’ambiguità, non si mangia non perché tossico ma  nel senso che non si lascia mangiare, forse allora il nostro tarpone si è lasciato prendere, in linea con le nuove linee pensionistiche di Macron, forse era stanco di combattere. Lo compriamo, sempre sotto il diluvio, e l’homeless, che sciabatta nella pozza di sangue del povero tarpone pensionato, comincia ad affettarlo con una specie di coltellino da insalata, poi arrivano altri simil homeless ad aiutarlo a finire il pesce. Ce ne andiamo coi nostri pezzi di tarpone sanguinolenti, il venditore-homeless ci dice di metterci “molte spezie”, che non è beneaugurante. Compriamo la carbonella  a un discount insieme a delle patate e due buste di insalata, totale 75 euro.  Mangiamo il tarpone, arrostito da Ambrogio e dai suoi, scalzi, nel barbecue della villetta. Loro sono tutti contenti, tra pochi giorni salperanno per la nuova traversata. Io non vedo l’ora di tornare a Milano, finalmente un po’ di sole: ma quel che è certo è che non permetterò mai più a nessuno di dire che la vela è uno sport da fighetti.

Di più su questi argomenti:
  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).