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qatar 2022 - facce da mondiale

Song'e Camerun. La trasformazione dell'ex difensore in ct

Giovanni Battistuzzi

Per anni Rigobert Song fu un centrale difensivo tanto forte quanto problematico nella gestione. Per quasi tutti i suoi allenatori era troppo anarchico. Ora, sedutosi in panchina, e dopo un ictus, si è trovato a dar ragione a chi aveva criticato quando era ancora un giocatore

Rigobert Song apparve, per i meno avvezzi al calcio francese – all’epoca la grandissima maggioranza –, il 17 giugno del 1998 sotto una cascata di treccine. Era il difensore centrale del Camerun che perse per 3 a 0 contro l’Italia guidata da Cesare Malidini (segnarono Luigi Di Biagio e due volte Christian Vieri) nella fase a gironi del Mondiale francese. Era alla sua seconda esperienza nella Coppa del mondo, ma quella di quattro anni prima in America, era ancora ben lungi da essere un evento mediaticamente invadente nel nostro paese (anche a causa degli orari molto pochi italiani). Era di quei difensori fisicamente dominanti, sebbene un metro e ottantatré d’altezza per una settantina abbondante di chili non si discostassero poi molto dalla media dei difensori europei. Era bravo, soprattutto simpatico per capigliatura e sorriso. Giocò tre partite e se ne tornò a casa subito, nonostante quel Camerun fosse una gran bella squadra, che in campo stava bene e in modo spettacolare. Tre partite, pochi errori, la sensazione che potesse meritarsi ben più della Ligue 1.

 

Venne acquistato dalla Salernitana, convinta di aver fatto un affare. Durò quattro partite e cinque mesi: Delio Rossi lo considerò inadatto al calcio italiano. Passò a un Liverpool in cerca di una dimensione in Premier League che non fosse quella da comprimaria. Durò poco anche lì. Un anno e mezzo, trentatré partite, la bocciatura di Gérard Houllier: “Ha classe, ma deve imparare che il calcio è un gioco di squadra dove la squadra deve avere il primo posto su ogni altra ambizione personale”, disse sul finire della prima stagione ai Reds. Rincarò la dose nel gennaio successivo: “Il calcio è un gioco di regole nel quale l’anarchia non è consentita. La libertà sì, non però quella di fare ciò che si vuole. Serve ordine, in campo e dentro di noi”. Per l’allenatore francese Song non lo possedeva. Fu messo alla porta, ma con rammarico: “Non ho visto molti giocatori con le caratteristiche di Rigobert, mi spiace molto non abbia voluto metterle al servizio di tutti”.

 

Song era forte, fortissimo negli anticipi, bravo in marcatura e nei recuperi. Poco avvezzo però a rinunciare al suo istinto, che parecchie volte lo portava fuori strada, a commettere errori banali, per mancanza di disciplina. Girò parecchie squadre, diversi paesi (Inghilterra, Germania, Francia, Turchia), fu amatissimo ovunque e alla lunga messo alla porta. Il motivo sempre lo stesso: voler fare sempre di testa propria. In campo non è mai una scelta lungimirante.

 

Quando nel 2015 il Ciad annunciò di averlo ingaggiato come commissario tecnico L’Equipe chiese a Gérard Houllier cosa ne pensasse della decisione della federazione africana. Rispose: “La mia speranza è che abbia imparato che la squadra è qualcosa di più di un’addizione di singoli, che ciò che è realmente importante è fidarsi degli altri, superare l’egoismo”. Rigobert Song, sempre all’Equipe, ma qualche anno dopo, diede ragione al suo ex allenatore. “Per anni ho pensato che fossero i grandi giocatori a far vincere le squadre, ora ho capito che non è così, che un uomo da solo può nulla contro un gruppo. Mi è chiaro che le regole non sono una costrizione, sono la colonna vertebrale della nostra libertà”. Lo disse dopo che un ictus l’aveva colpito, l’aveva spinto a un passo dalla morte. Song dopo essersi ripreso si è trasformato in tutti quegli allenatori che gli avevano fatto la ramanzina per quello che faceva, o meglio non faceva in campo. Il suo Camerun, quello che è riuscito a portare al Mondiale in Qatar, e che oggi alle 11 affronterà la Svizzera nella prima partita del gruppo G, è la nemesi del giocatore che è stato, la somma di tutto quello che ha provato a ignorare quando era in campo. “Questa squadra deve essere come un corpo di ballo, ognuno ha un ruolo da interpretare, nessuno può fare a meno degli altri. Se penso che cerco di instillare questo ai miei ragazzi mi viene da ridere. Per parte della mia carriera ho creduto che tutto questo fosse una cavolata. Poi la vita entra in tackle e per fortuna si riesce a rimettere ordine nel disordine”.