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Qatar 2022

Se il Galles vuole chiamarsi Cymru non è per capriccioso irredentismo

Francesco Gottardi

Le partite che la Nazionale guidata da Rob Page giocheranno al Mondiale potrebbero essere le ultime sotto il nome Wales

A Cardiff e dintorni (anzi Caerdydd, visto che di idioma nativo stiamo parlando) non è una novità. Per tutti, il Galles e la sua nazionale di calcio si chiamano già Cymru. Piccola nota per la lettura: non si pronuncia ‘cimru’, dove intuitivamente ci porterebbe l’italiano. Ma ‘kəmri’, con lo strapazzatissimo schwa (un suono vocalico a metà fra la ‘a’ e la ‘e’). È bene abituarsi. Perché al termine dei Mondiali in Qatar, che Gareth Bale e compagni inaugurano stasera contro gli Stati Uniti, la federazione locale sta prendendo seriamente in considerazione di cambiare nome. Da Wales a Cymru, appunto. “Riteniamo che il 2023 possa essere l’anno buono”, ha annunciato il direttore generale Noel Mooney nelle ultime settimane. “A casa è questa la parola che utilizziamo. È così che ci sentiamo. C’è un ulteriore sforzo da fare a livello internazionale, ma la rinascita della nostra lingua e della nostra identità culturale è sotto gli occhi di tutti”.

   

Di partita in partita. La svolta risale a giugno, quando Galles-Ucraina metteva in palio l’ultimo pass europeo per Doha. In campo vincono i Draghi rossi. Sugli spalti, i decibel di “Yma o Hyd” (“Ancora qui”): una canzone patriottica che negli anni è diventata l’inno ufficioso della nazionale. “Per noi è carica di significato”, ha spiegato il ct Rob Page a qualificazione acquisita. “Giochiamo più che per una semplice maglia e questa musica ce lo vuole ricordare”. Nel pieno dei festeggiamenti, perfino Bale improvvisa un duetto con un commosso signore anziano: è Dafydd Iwan, 79enne autore del brano e presidente di Plaid Cymru fino al 2010, il principale partito indipendentista gallese. Senza scomodare la politica, per il calcio i tempi sono maturi.

  

I precedenti del cambio di nome fanno sperare. “Alcuni stati come Turchia e Azerbaigian sono riusciti ad affermare l’uso della lingua originale”, torniamo al discorso di Mooney. “Abbiamo iniziato a intavolare il discorso con la Uefa. E per avere qualche consiglio a riguardo, anche con la Turchia stessa”, ormai Türkiye fino alle Nazioni unite, dato che il prestigio diplomatico ambito da Erdogan mal si addiceva alla parola inglese che sta per ‘tacchino’. Ecco. Secondo il Collins dictionary, ‘wales’ non è simile fonte di imbarazzo, ma in ogni caso, al plurale, significa “i segni lasciati sulla pelle da una frustata”: poco edificante rappresentazione di paese. C’è poi un aspetto pratico. “Quella W ci relega sul fondo della lista alfabetica Uefa ai sorteggi e alle assemblee”, dice Mooney. “Ormai siamo abituati a sederci accanto ai nostri amici ucraini. Ma ci piacerebbe avvicinarci ai cechi e ai croati”.

   

Che non si tratti di capriccioso irredentismo lo fanno vedere i dati. Nel 1981, quando venne composta “Yma o Hyd”, le persone in grado di parlare gallese sul territorio erano circa mezzo milione: il 19 per cento del totale, il dato più basso mai registrato. Si rischiava così di perdere l’uso di un idioma millenario, relegato a dialetto nelle zone rurali e operaie anche per la crescente pressione dell’inglese. “Come si fa a parlare senza vocali?”, si chiedeva The Sunday Times soltanto l’anno scorso. Ma nel frattempo le cose sono cambiate. A partire dal Welsh language act del 1993, una nuova legge che ha portato il settore pubblico ad adottare uno schema bilingue. Nel 2001, il trend si è invertito per la prima volta in un secolo e il numero di gallesofoni è tornato a salire. Dieci anni più tardi, un potenziamento del Welsh language act ha reso il gallese la sola lingua ufficiale de iure. E ha istituito una commissione dedicata per strutturarne l’insegnamento nelle scuole, con l’obiettivo, riconosciuto in modo bipartisan dal governo locale, di raggiungere il milione di parlanti entro il 2030. Oggi siamo a quota 900mila, il 30 per cento dell’intera popolazione.

   

Quando un gol di Pelè eleminava il Galles dal suo primo Mondiale nel 1958, “non avremmo mai immaginato di dover attendere 64 anni per un’altra partecipazione”, ammette ora Cliff Jones, uno degli ultimi superstiti di quella spedizione, intervistato da Wales Online. “La nostra compattezza sul campo ci permetteva di affrontare chiunque”. Era più consapevole quella squadra del popolo che l’aspettava a casa. Verso il Qatar invece i ruoli si sono invertiti: i ragazzi di Page hanno tutto da dimostrare, mentre i tifosi sanno già come andrà a finire. A bydd yr iaith Gymraeg yn fyw! (e la lingua gallese sarà viva).

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