Michele Graglia è uno dei migliori ultra maratoneti italiani (foto tratta dal sito lasportiva.com 

La terza vita di Michele Graglia, l'ultramaratoneta modello

Pierfrancesco Catucci

In certi momenti "o ti autodistruggi o trovi il modo per rinascere". L'ultrapodista ha iniziato a correre. Ha attraversato di corsa due dei quattro deserti più estremi al mondo (l’Atacama e il Gobi), ha in programma di attraversare gli altri due

Nella prima vita Michele Graglia lavorava nell’export di fiori per l’azienda di famiglia a Taggia, a due passi da Sanremo. Nella seconda faceva il modello tra Miami, New York e Milano per alcuni tra i più importanti brand internazionali di moda e per le riviste più prestigiose. Ma è solo nella terza vita che ha trovato la felicità. Nella fatica. Da una decina d’anni è uno dei più forti ultramaratoneti italiani. Che, detta così, rende l’idea ma non troppo. Graglia ha attraversato di corsa due dei quattro deserti più estremi al mondo (l’Atacama e il Gobi), ha in programma di attraversare gli altri due (che, per rendere ancora meglio il concetto, si chiamano Antartide e Sahara) e ama correre in condizioni estreme, quando la fatica assume le sembianze nel diavolo tentatore che ti chiede continuamente di mollare e tu lo senti ma non lo ascolti e vai dritto per la tua strada. E poi arrivi al traguardo. Spesso davanti a tutti gli altri nel caso di Graglia, ma non è quello il punto. A fine agosto compirà 39 anni, gli ultimi 11 dei quali vissuti di corsa per fuggire a un demone più grande.

 

Era l’autunno del 2007 e lui era partito per Miami per sviluppare l’export in Florida dell’azienda di famiglia. “Nei primissimi giorni incontrai per caso la direttrice di una delle più importanti agenzie di moda americane e, davanti a una Coca-Cola in un bar, mi propose di posare per lei”. Lui le chiama sliding doors e probabilmente lo sono, di fatto si ritrovò catapultato in una realtà completamente nuova. “Per quattro anni ho vissuto tutti gli eccessi di un mondo che non mi apparteneva”. E non è necessario indagare troppo a fondo per avere un quadro abbastanza realistico. “Quella vita – però – mi ha rapidamente logorato e, nel giro di pochissimo tempo ho cominciato a interrogarmi su chi fossi davvero e su quale fosse il mio posto nel mondo. Sono entrato in un periodo simil depressivo e ci sono stati anche momenti in cui ho pensato al peggio. Cercavo una strada per venirne fuori, ma non riuscivo a trovarla e la crisi con la mia ex moglie era un amplificatore di questa condizione. In quei momenti o ti autodistruggi o trovi il modo per rinascere”. Lui ha trovato la forza in una libro. “Un pomeriggio di gennaio 2011, mentre aspettavo la mia ex moglie, entrai in una libreria di New York e, senza che me ne rendessi conto, fui attratto da un libro”. Si intitola Ultramarathon man di Dean Karnazes ed è la storia autobiografica dell’ultramaratoneta americano che, a un certo punto, si sentì talmente stretto dall’ordinarietà della vita da dirigente marketing di un’azienda farmaceutica che la notte del suo trentesimo compleanno cominciò a correre senza sosta e, solo alla fine, si accorse di aver percorso 48 chilometri. “Lo lessi tutto d’un fiato quella sera stessa e il giorno dopo ancora una volta. Il giorno successivo comprai le scarpe e corsi i miei primi 10 chilometri a Central Park”.

 

È in quel momento, a 27 anni, che comincia la terza vita di Michele Graglia. “A maggio di quello stesso anno corsi la mia prima gara: una 100 miglia (160 chilometri). Intorno al chilometro 140 ero in testa, ma mi portarono via con l’ambulanza”. Capì allora che per quel genere di gare bisognava allenarsi seriamente e curare ogni aspetto della performance, compresi il riposo, l’alimentazione e l’idratazione. “Ci ho messo mesi per riprendermi, ma poi ho cominciato a prepararmi seriamente” e, con le prime gare, sono arrivati i primi successi. È entrato nel team La Sportiva e si è specializzato in gare estreme. A cominciare dalla Milano-Sanremo, l’ultramaratona più lunga d’Europa con i suoi 285 km, vinta alla prima edizione. Ma una delle imprese più celebri è la vittoria nel 2018 della Badwater, una gara estrema di oltre 230 chilometri che si corre a luglio, in California, nella Death Valley. “Partimmo alle 23 con 46 gradi e di giorno toccammo i 54 gradi. Fu massacrante, ma è tra i momenti più belli della mia vita, assieme alla nascita di mio figlio”. Un problema al tendine d’achille nell’ultima La Sportiva Lavaredo Ultra Trail (120 chilometri con 5.800 metri di dislivello positivo), porterà a qualche aggiustamento nei suoi prossimi programmi, ma gli obiettivi sono due: la traversata del deserto dell’Antartide e, poi, del Sahara. Alla continua ricerca di un limite da superare. “Lo so, non dovrei dirlo, ma io sono come Icaro e fin quando non mi brucerò, non saprò mai dov’è”. 

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