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Il Foglio sportivo

Tutto un altro Giro d'Italia. Le bici in punta di dito

Giovanni Battistuzzi

Il ciclismo è stato per anni racconto scritto e orale. Le immagini sono arrivate dopo. Oltre a quelle vere ci sono state le corse immaginate, ma reali, perché viste e vissute, inginocchiati a colpire i tappi

L’albo d’oro del Giro d’Italia dice che la corsa l’ha vinta trentun volte Fausto Coppi, con dodici secondi posti e undici terzi; segue Felice Gimondi, staccato sì, ma molto più costante: diciotto vittorie, dodici volte secondo, venticinque terzo; poi c’è Franco Bitossi: quindici successi, tre volte sul secondo gradino del podio, otto sul terzo; Eddy Merckx giù dal podio: quattordici maglie rosa finali, sedici volte secondo, tredici terzo; e di un pelo davanti a Italo Zilioli: tredici volte primo, recordman di piazzamenti alle spalle del vincitore, venticinque, mai terzo. La sorpresa è Dino Zandegù: otto vittorie, otto secondi posti, diciassette volte terzo. Una affermazione anche per Antonio Maspes, campione dei velodromi, decisamente meno a suo agio sull’asfalto.

 

Tutto ufficialissimo, anzi certificato. E poco importa se la realtà condivisa non può prendere seriamente in considerazione quanto qui scritto. È censoria la realtà condivisa. Si basa sugli ordini di arrivo stabiliti ufficialmente. Pure queste però sono classifiche redatte ufficialmente, penna su carta. Affianco a ogni nome tre colonne: sopra, in bella calligrafia 1°, 2°, 3°, sotto quattro barrette orizzontali e una sbieca a fare cinque, che è più facile contare. E c’è pure la data d’inizio: 6 giugno 1969. La data di fine no. Come abbia superato oltre mezzo secolo un quadernino, di quelli di una volta con la copertina in cartoncino coi colori effetto macchie di candeggina e la rilegatura a filo, è presto detto. “È come fosse una reliquia, un ricordo di un tempo andato e di amici, alcuni, andati anch’essi”.

La richiesta era: la storia la racconto, ma nessun virgolettato, e nessun nome e cognome. Richiesta già tradita, il virgolettato c’è, ma era necessario. Contestualizza.

In questo quadernino ci sono un centinaio di edizioni del Giro d'Italia. Tutti corsi ginocchia a terra a immaginare che al posto dei tappi ci fossero davvero i corridori. Non sono mai esistiti questi Giri, eppure quei dieci amici li hanno visti tutti. L’immaginazione è alla base del ciclismo. Era racconto scritto, il Giro. Poi divenne racconto anche orale, radiofonico. Le immagini sono arrivate dopo che già di Giri la gente se ne era immaginati parecchi. Che differenza fa se al posto delle bici c'erano i tappi?

 

Di giochi coi tappi ce ne erano tanti inseguimento, tocco, battaglia frontale, ruba base, eccetera. Ogni paese aveva il suo modo per chiamare questi giochi. Poi c’era quello che interpretava la realtà , la rendeva  visibile e prossima, anche se magari scorreva altrove. Le Dolomiti e le Alpi si materializzavano a pochi centimetri dagli occhi. E le fughe, le crisi, gli scatti, le imprese erano a portata di tutti. Maspes che stacca Coppi in salita, Zandegù che batte Merckx. Poteva accadere di tutto nel ciclotappo o bicitappo o girotappo o come lo si voleva chiamare. Si disegnava sull’asfalto un percorso col gesso, una linea di partenza e una d’arrivo e “si tirava il tappo, come fosse una biglia, con l’indice, almeno all’inizio, perché poi si usavano tutte le dita. Era una prova di resistenza, il ciclotappo. Alla concentrazione, alla fatica di stare accucciati, al dolore alle unghie”, spiega Eno Visintin, veneto, d’Argentina però. “Vinceva chi prima arrivava. Poi ogni tocco in più erano venti, quaranta secondi, un minuto e poi via di minuto in minuto. E si faceva la classifica generale. O almeno noi. Di varianti ce ne era una per gruppo d’amici”. A casa, a Mar de la Plata, ha una una collezione di quasi un migliaio di tappi. Tutti personalizzati, “alcuni con la figu dei corridori dentro, altri con incisi i nomi. Uno con il volto di Coppi e un suo mini autografo”. Eno racconta dei suoi Giri d’Italia negli altopiani d'Asiago all'inizio degli anni Cinquanta. “Io tenevo per Cleto Maule, perché era imparentato con mia madre. Al ciclotappo ero bravo e Maule di Giritappi ne ha vinti parecchi”. Giri molto simili a quelli riportati in quel quadernetto.

 

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta era ancora un’epoca nella quale nessuno chiedeva, “ah ma c’è il Giro?”. Lo sapevano tutti che si correva il Giro. E sapevano  quando e chi erano i forti, quello che si contendevano la maglia rosa. Ora è diverso. Certe domande-affermazioni le si sentono continuamente. E a dire Richard Carapaz, Jay Hindley e Mikel Landa, a volte ci si sente rispondere: “Chi?”. Viene nemmeno voglia di parlarne in giro. E da star zitti al bar. In osteria sì. Chi sia Carapaz lo sanno, zoppicano su Hindley, ma se dici Nibali, Nibali Vincenzo, c’è pure un fiorire di punti di vista. C’è chi dice che la scelta di ritirarsi a fine stagione è giusta. Chi sostiene il contrario. Chi è convinto che la decisione l’avrebbe dovuta prendere due anni fa. Chi dice che sono cavoli suoi e beve un altro bianco.

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