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il foglio sportivo

Un Augusta Masters per sei e per Tiger

Corrado Beldì

Chi vincerà tra Scheffler, Rahm, Morikawa, Smith, Cantlay e Hovland sarà numero 1 del golf mondiale. Woods sogna la sesta giacca verde e torna 14 mesi dopo l’incidente in cui rischiò la vita

Le magnolie del viale di accesso sono di un verde che non puoi spiegare, nei giorni di inizio aprile sono sempre così, è un filare seminato nel 1850 che accompagna i campioni a una piccola club house bianca in stile coloniale, un’immagine che qualunque golfista al mondo riconoscerebbe tra mille. Il paradiso emerge da un bosco di pini e ginepri, gelsomini e azalee ovunque, basta vedere il trionfo di fiori per capire perché Bobby Jones, il più grande di sempre, scoprendo questo angolo di Georgia decise che a 28 anni era tempo di ritirarsi per creare un torneo e un percorso che avrebbero segnato la storia del golf. Da quasi un secolo la sfida si ripete e ogni anno i migliori golfisti si ritrovano all’Augusta National, sanno bene che si diventa immortali solo vincendo qui, superando le micidiali buche dell’Amen Corner. Perché dalla 11 alla 13 può scatenarsi l’inferno, piante, acqua e insidie da ogni lato, per passare indenne devi avere i nervi saldi, soprattutto la domenica, quando il gioco si fa duro. Perché all’ultima buca, in cima al tabellone, resta sempre e soltanto un nome.

 

La posta in palio è più ricca che mai, non era mai accaduto prima, sono sei i giocatori che vincendo un Masters possono diventare numero del ranking mondiale superando Scottie Scheffler, il venticinquenne di Dallas che dopo la vittoria nel World Match Play ha rubato il primo posto allo spagnolo Jon Rahm, sulla carta il più forte del pacchetto. A contendersi la poltrona altri due americani, Collin Morikawa e Patrick Cantlay, l’australiano Cameron Smith e non ultimo il nostro favorito, il ventiquattrenne norvegese Victor Hovland, giocò qui la prima volta nel 2019 dopo aver vinto lo US Amateur e forse per lui è giunta l’ora della consacrazione. Di certo ci aspettano due giorni mozzafiato con una schiera di campioni in lizza per la giacca verde, ci sono Justin Thomas, Jordan Spieth, Dustin Johnson e soprattutto, di ritorno dall’incidente, il mito Tiger Woods oltre a qualche outsider in grado di sparigliare le carte come avvenne dodici mesi fa con Hideki Matsuyama, il giapponese che nel terzo giro, dopo un birdie con un fenomenale punch shot dal bosco alla buca 11, fece le seconde nove in soli 30 colpi, prese la testa e non la lasciò fino alla fine.

 

Mai un nipponico aveva vinto il Masters. Martedì sera alla solita cena dei campioni Matsuyama ha fatto preparare merluzzo nero con salsa di miso e bistecca di wagyū coi funghi e per finire una shortcake con fragole fatte arrivare rigorosamente da Fukuoka. Soprattutto tantissimo sake Junmai, quello più morbido e fruttato, per stendere in anticipo qualche rivale in vista del tradizionale Par-3 Contest, il mini torneo del mercoledì mattina poi vinto a sorpresa da Mike Weir e Mackenzie Hughes. Un successo a pari merito che non porta bene, mai un vincitore del Contest ha portato a casa il Masters nella stessa settimana, è una certezza del torneo come l’aiuola di begonie gialle col profilo degli States, lo spogliatoio coi nomi dei vincitori incisi nell’ottone e all’interno degli armadietti, tutte bene in fila, le mitiche giacche verdi che possono essere indossate dai soci e dai vincitori soltanto all’interno del circolo. Le più vecchie sono quelle degli honorary starters che hanno dato il via al torneo giovedì scorso all’alba. A Jack Nicklaus e Gary Player l’altra mattina si è aggiunto il più giovane Tom Watson che ha sostituito lo scomparso Lee Elder, il primo afroamericano a giocare qui nel 1975. Per i cultori del #BlackLivesMatter, il campo fu realizzato su una vecchia piantagione di indaco, siamo al centro di quello che fu il sud più schiavista, in un video ufficiale la voce di Condoleezza Rice racconta la vita di Lee, le difficoltà a emergere in un mondo ingessato, le voci che ancora emergono da un passato così vicino.

  

 

AP Photo/Jae C. Hong

  

Qui la simbologia è tutto, non c’è dettaglio lasciato al caso, non c’è filo d’erba che non sia tagliato alla perfezione, non c’è granello di sabbia che non sia di un quarzo abbagliante. Siamo ad Augusta, dove i grandi hanno giocato e segnato la storia di questo sport. Una tradizione che si ripete grazie a cambiamenti impercettibili ma decisivi, quest’anno tre buche sono state allungate e il campo ha raggiunto la lunghezza record di 7.510 yards. Alcune buche sono più complicate. La 15 richiederà due ferri in più, d’altra parte le attrezzature evolvono, gli atleti sono più muscolari ed è giusto, come ha ricordato Gary Player “fare in modo che il campo giochi come lo affrontava Jack Nicklaus quando aveva vent’anni”, come il drive della buca 11, alcuni alberi tagliati a sinistra, facile sulla carta ma infido ai più pavidi, se tiri un gancio può trasformarsi in un disastro come ben sapeva Dwight Eisenhower che dal tee della 17 centrava così spesso il pino a sinistra del fairway che un giorno chiese di rimuoverlo. Una gioia che gli fu sempre negata perché in un circolo di golf anche il presidente degli Stati Uniti ha poteri molto limitati.

 

Come le speranze che quest’anno possa vincere un italiano, in campo per noi Francesco Molinari, in forma altalenante e Guido Migliozzi, in virtù del quarto posto allo scorso US Open. Nessuno dei due ce la farà, piuttosto si guarda a due altre promesse del vecchio continente, al dilettante inglese Laird Shepherd e soprattutto a Seamus Power, un nome che più irlandese di così si muore, un anno fa non era nei primi 500 e ora è tra i più osservati in vista della prossima Ryder Cup, con l’Europa che spera di rispondere sul campo di Roma al tracollo di Whistling Straits. Un infortunio da niente in confronto alle sofferenze di Tiger Woods che torna in campo quattordici mesi dopo l’incidente in cui ha rischiato di perdere la vita e la gamba destra e ora è qui a cercare la sua sesta vittoria a un quarto di secolo dal primo trionfo. Forse Tiger ha chiesto troppo al suo corpo, di certo il suo ritorno è la vera notizia di questa edizione. Il più amato di sempre è ancora lui e saranno milioni a guardarlo camminare sull’Hogan Bridge e a trattenere il fiato per spingere i suoi colpi verso il centro della buca, per portarlo un’altra volta davanti a tutti, oltre le difficoltà della vita, verso un’ultima memorabile vittoria, per mostrare che nel golf, sport fisico e psicologico per eccellenza, davvero non c’è limite alla fantasia.

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