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il foglio sportivo

Kieran Read ci spiega "come si diventa  All Blacks”

Alessandro Ferri

Il capitano della Nazionale di rugby della Nuova Zelanda “è il secondo ruolo più importante nel mio paese, dopo il Primo Ministro”, ma “per restare al top abbiamo dovuto studiare i Bulls di Jordan e il Milan di Sacchi”

Se la carriera di un atleta professionista è un giro di giostra, Kieran Read lo ha fatto su uno di quei meravigliosi caroselli di fine Ottocento che si trovano nelle capitali dell’Europa centrale, con i cavalli dipinti a mano da falegnami artisti, che suonano il valzer una volta partiti. 

 

Non si poteva fare meglio di così: 127 presenze con gli All Blacks, due mondiali vinti, nel 2011 e nel 2015, un terzo posto nel 2019, 4 Super Rugby (il campionato dell’emisfero sud) con un’unica squadra (i Crusaders) con cui ha giocato per dodici anni, miglior giocatore del mondo nel 2013, ma soprattutto, una personalità che lo rende forse la più grande leggenda del rugby contemporaneo.

 

Kieran è un’icona di uno sport che, in Nuova Zelanda e in generale in Oceania, ha un significato che travalica quello del campo. 

 

Essere un All Black è un privilegio, essere il capitano degli All Blacks “è il secondo ruolo più importante nel mio paese, dopo il Primo Ministro”, dice in modo ironico, ma non troppo. “Ho avuto questo privilegio, succedendo a Richie McCaw (un altro dei membri del pantheon tuttonero, ndr) e devo dire che ho cercato di essere un buon leader fin dal primo momento”.

 

La leadership è un concetto fondante di una cultura diventata simbolo di un intero sport. Anche chi non conosce minimamente il rugby sa che gli All Blacks esistono, sa che vincono, sa che prima di ogni partita fanno la haka, la danza rituale che è il motivo principale per cui i tifosi europei meno avvezzi alla palla ovale pagano il biglietto quando a novembre la squadra neozelandese viaggia nell’emisfero nord per i test match autunnali. 

 

 EPA/NIC BOTHMA

 

“Cerco di essere la versione migliore di me stesso ogni giorno – spiega Read – Lo facevo da giocatore e continuo a farlo oggi con i miei figli e mia moglie. Quando ero in campo, soprattutto in Nazionale, ho sempre cercato di stimolare i miei compagni, mostrando loro anche le mie incertezze. Solo così abbiamo potuto remare tutti verso un obiettivo comune”.

 

Nel corso della sua carriera, iniziata con la squadra della contea di Canterbury nel 2006 e terminata a maggio 2021 con i Toyota Verblitz, in Giappone, Read ha avuto momenti in cui ha pensato di smettere di giocare: “Era il 2014. Durante l’anno ho avuto un paio di commozioni cerebrali e sono dovuto stare lontano dal campo per qualche mese. Mentre venivo visitato dai medici e seguivo tutti i protocolli per tornare a giocare, ho pensato che forse avrei potuto smettere. Avevo paura di non potermi più sentire a mio agio durante le partite, quindi ci ho pensato un po’. In quei momenti, che sono stati forse i più bui della mia vita sportiva, ho vissuto una lieve forma di depressione. Fortunatamente sono riuscito ad andare oltre, grazie all’aiuto di alcuni specialisti che mi hanno aiutato. È stato molto duro”.

 

La paura gioca un ruolo importante nella vita di tutti, All Blacks compresi. Nonostante quella che Read ha capitanato sia stata forse la più forte squadra sportiva di tutti i tempi, anche i superuomini hanno dovuto fare i conti con incertezze e dubbi personali: fattori che spesso non vengono considerati, ma che invece incidono. “La paura è una cosa normale – spiega – e mi rendo conto che non possiamo essere coraggiosi se non lasciamo spazio anche a questa. Far parte degli All Blacks significa rappresentare il nostro paese nel mondo e ovviamente ci spaventa, soprattutto per le pressioni connesse a questo. Abbiamo paura delle aspettative del pubblico, dei giornalisti, delle nostre famiglie. È importante non farsi travolgere, tenendo tutto fuori dal campo. Alla fine giochiamo solo a rugby, facciamo un lavoro che non è pericoloso”.

 

Tra il 2011 e il 2019, la Nazionale neozelandese ha fatto qualcosa di incredibile: vincere due Coppe del mondo consecutive, lanciare giovani campioni, inanellare vittorie su vittorie. Una striscia forse irripetibile, che spinge a una riflessione: è più difficile diventare la miglior squadra del mondo, o rimanerlo nel tempo? 

 

Read è molto sicuro su quale sia la risposta: “Restare al top è decisamente la cosa più difficile. Tutti noi, come atleti, cerchiamo di arrivare al massimo, ma quando ci arriviamo tendiamo inconsciamente a rilassarci. Mantenere la concentrazione giorno dopo giorno è la chiave. Per questo abbiamo studiato i nostri predecessori: i Chicago Bulls di Michael Jordan, il Milan di Arrigo Sacchi, ma anche gli All Blacks del passato. Ci ha aiutato a capire dove potevamo migliorarci, perché c’è sempre qualcosa su cui lavorare. Quello verso la perfezione è un viaggio che non ha destinazione finale”.

 

Per sua stessa natura un capitano è chiamato a guidare un gruppo. Nel caso del capitano degli All Blacks, deve anche mandare un messaggio. La Nuova Zelanda, un’isola abitata da 5 milioni di persone, scoperta dagli europei tra il Seicento e il Settecento, fonda la sua immagine all’estero proprio sulla Nazionale di rugby. Per questo, quando a novembre 2018 vennero a Roma per un test match con gli Azzurri, Kieran Read volle portare una delegazione di suoi compagni di squadra (lui, il mediano di mischia Aaron Smith e i tallonatori Codie Taylor e Dane Coles) a visitare il cimitero di guerra di Monte Cassino, dove sono sepolti i 343 soldati neozelandesi morti lungo la linea Gustav nel 1944. “È stato un giorno speciale. Mio nonno ha combattuto a Cassino e tanti suoi coetanei non sono tornati a casa. Ragazzi della mia età si sono trovati nel mezzo di una guerra che non gli apparteneva ed è assurdo, pensando alle immagini che vediamo in tv e online, che questo accada ancora oggi. La Nuova Zelanda è distante dal resto del mondo: i nostri antenati hanno dovuto viaggiare per farsi conoscere. Per questo sentiamo un legame così stretto con le radici, tanto quelle maori, quanto quelle di origine europea. È molto importante rappresentare la nostra storia, ricordando chi è morto per un bene superiore”.

Il rapporto di Kieran Read con l’Europa e con l’Italia non si ferma qui: “Dopo i Mondiali 2019 ho pensato di venire a giocare a nord, poi ho ripiegato sul Giappone perché il campionato era più breve ed ero più vicino a casa. Con che maglia mi sarei visto? Beh, in Francia con quella di Tolosa o del Racing Metro, in Irlanda con Munster o Leinster, ma perché no, forse anche con quella di un club italiano come le Zebre di Parma. Sono venuto in Italia solo per giocare, quindi ho visto Roma e poco altro. Una volta, durante un tour, ho anche visto il Papa da lontano in verità. Ora che ho smesso però vorrei prendermi del tempo per visitarla da turista. È un paese che amo”.

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