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L'autogol era un'opera d'arte, è diventato una Lettera scarlatta

Furio Zara

La carambola che ha fatto sì che il terzino della Fiorentina Lorenzo Venuti spingesse il pallone nella sua porta contro la Juventus dovrebbe essere depurata dalle tossine del tifo. Il problema è che ormai non siamo più abituati ai "gol al contrario" e non riusciamo a coglierne la bellezza

Segnare un autogol è la forma più virtuosa e artistica di autolesionismo, perché prevede l’involontarietà del gesto, implica il manifestarsi di una bellezza sghemba e poco codificabile dalla maggioranza e porta infine a conseguenze drammatiche: come Hester nella "Lettera Scarlatta", anche qui si viene esposti alla pubblica umiliazione, in quel social-patibolo che regola le nostre giornate. L’autogol è una scorticatura sul proprio Io (se solo Freud sapesse), una lacerazione sulla sindone del nostro orgoglio che innesca compassione tra i più e solidarietà tra chi ci ama: vedi la reazione della fidanzata del terzino della Fiorentina Lorenzo Venuti, colpevole – si fa per dire – della carambola che ha consegnato la vittoria alla Juventus nella semifinale di Coppa Italia. Nel videomessaggio che ha postato sui social, Augusta Iezzi replica agli insulti tirando in ballo questioni enormi. "Io direi che in questo preciso momento che stiamo vivendo attualmente, ci sono problemi ben più gravi di un pallone che ti sbatte addosso e fa autogol". Lo sfogo le fa sbagliare la misura, esattamente come è successo al compagno su cross di Cuadrado. La verità è che siamo noi a ciccare prospettiva e a considerare fuori fuoco la questione: in realtà l’autogol – depurato dalle tossine del tifo – dovrebbe essere celebrato come un’epifania. Godot è finalmente arrivato e – sorpresa – ha calciato il pallone nella porta sbagliata.

Senza dimenticare che di autogol purtroppo si muore – Andrès Escobar che con una involontaria deviazione condannò la Colombia all’uscita del Mondiale 1994 facendo perdere milioni di dollari ai boss del narcotraffico che avevano scommesso sulla qualificazione – in questi tempi frettolosi e caciaroni l’autogollista (o autogoleador) non ha nemmeno la consolazione di vedersi cantato da un qualsiasi nipote di De Andrè che ne celebri l’andare in "direzione ostinata e contraria" e tra un meme e l’altro fa ogni volta la figura di Fantozzi nella celebre "Scapoli contro Ammogliati": poco conta che dopo l’autogol cerchi di scaricare le colpe: "Avvocato, lei con l’occhio mi ha fatto capire…".

Quando nel 1977 Edoardo Bennato incide a sua insaputa la canzone-autogol per eccellenza – "E’ stata tua la colpa e adesso che vuoi?" – il re degli autogol ha appena smesso di fare danni. Si chiamava Comunardo Niccolai - detto "Agonia" per la sua magrezza, stopper del Cagliari di Gigi Riva che nel 1969-70 vinse lo scudetto – e fu l’uomo che innalzò l’autogol a opera d’arte, un po’ come fecero i maestri dell’Arte Povera: fate conto Michelangelo Pistoletto che espone la "Venere degli stracci", o Giuseppe Penone che afferma "un respiro si può considerare scultura perché modifica l’aria che lo circonda". Pensa te uno stinco che spunta da una mischia, o un colpo di testa all’indietro che coglie di sorpresa il tuo portiere. Niccolai diede vita all’autogol-seriale, tanto che la sua meritata fama travalica la contabilità – in fondo ne fece solo cinque in Serie A, meglio (peggio) di lui fecero Franco Baresi e Riccardo Ferri, primatisti con otto autogol fatturati – e assume i contorni della leggenda. Nei ricordi di chi non c’era – ma soprattutto in quelli di chi c’era – Niccolai faceva praticamente un autogol ogni due partite, questo a conferma di quanto l’impresa in fondo abbia il potere di farci sentire migliori. La sventurata rispose, lo sventurato invece fece autogol. Non è escluso però che l’autogol porti alla dipendenza: un paio di settimane fa una calciatrice neozelandese – tale Meikayla Moore – ne ha fatti tre (3!) in una sola partita, nel breve volgere di una mezzora. Si chiama shopping compulsivo e si può curare.

 

Il "gol al contrario" puzza di beffa e porta alla vergogna. Non è un caso che da tempo in Serie A gli autogol siano quasi scomparsi, ospiti indesiderati di un tabellino teso invece ad esaltare chi i gol li fa (ma nella porta giusta). Da regolamento una rete è classificata come autogol in due circostanze. Quando un giocatore involontariamente calcia la palla direttamente nella propria porta (retropassaggio sbagliato o rinvio errato) e quando un giocatore devia nella propria porta un tiro, un cross o un passaggio di un avversario non indirizzato nello specchio della porta. Le correzioni, ecco. Ma Jonathan Franzen non c’entra nulla.

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