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Il puzzle dell'andata degli ottavi di finale di Champions League

Giuseppe Pastore

Se Inter e Juventus in 180 minuti hanno fatto due tiri in porta, altrove, in Inghilterra, si inizia a pensare seriamente alla coppa. E un bis del Chelsea non è da escludere

Nelle partite d'andata degli ottavi di finale di Champions League l'Italia ha giocato un ruolo di terzo piano. In 180 minuti più recuperi contro Liverpool e Villarreal, Inter e Juventus hanno messo insieme appena due tiri nello specchio della porta, entrambi a cura di Dusan Vlahovic, che non a caso è il miglior attaccante della Serie A (non che avrebbero fatto meglio Milan e Atalanta, che proprio da quelle due squadre sono state eliminate ai gironi). Tutto il resto appartiene come sempre alla categoria dei rimpianti: se quella traversa di Calhanoglu, se quel tiro-cross di Perisic, se quel movimento di De Ligt, se quella marcatura di Rabiot... Aggiungeremmo al quaderno delle lamentele anche l'opposizione ornamentale di Locatelli, spettatore non pagante sull'assist di Capoue per il gol di Parejo: quella mancata aggressione è lo specchio di una strategia juventina attendista fino all'ottusità che ancora una volta non ha pagato, visto che Villarreal-Juventus ha seguito suppergiù lo stesso copione di Juve-Torino. E in Champions, in particolare, non paga mai.

Grandi elogi per il gol-lampo di Vlahovic, e giustamente: è una rete stupenda, concentrato squisitamente balcanico di tecnica, scaltrezza e cattiveria, qualità che vedono triplicare il proprio peso specifico nel contesto di un dentro-fuori di Champions. Ma c'è motivo di credere che abbandonarlo al suo destino nella metà campo avversaria, come tende a fare la Juve in ogni partita di difficoltà medio-alta, non gli renda un grande servizio. Per quanto fortissimo, il ragazzo non ha la progressione di Haaland o Lukaku e la sua solitudine serve un assist formidabile alle vecchie lenze di mezza Europa, dai cagnacci Demiral e Bremer (ma anche De Ligt, che l'aveva cancellato dal campo in Juventus-Fiorentina di novembre) per finire con il vecchio lupo Albiol che nel secondo tempo l'ha progressivamente annullato, nel trionfo di un capo vintage come la marcatura a uomo. Eppure una palla ha avuto, a cinque minuti dalla fine, e ha costretto Rulli a una bella parata. Scriviamolo prima che vada di moda: salvate il soldato Vlahovic.

  

Il Chelsea è uno dei rarissimi casi di campione uscente che ha ripreso a viaggiare a fari spenti, come se il resto d'Europa non credesse a un secondo exploit. Eppure hanno vinto la Supercoppa Europea, eppure hanno vinto il Mondiale per Club, eppure domenica si giocheranno un altro trofeo (la Coppa di Lega) contro il Liverpool. Pur calibrato sui forsennati ritmi britannici, il calcio di Tuchel rimane più cerebrale della media inglese; la sua forza è l'assenza di primedonne, in aperto contrasto con le mode del momento – lo strapagato Lukaku, ritenuto da Tuchel superfluo, contro il Lille è rimasto 90 minuti in panchina. Di più: la forza del Chelsea è la consapevolezza che questo metodo di lavoro anti-spettacolare ha già prodotto enormi risultati la scorsa primavera, e allora perché no? Sembra una squadra a pannelli solari che produce energia grazie al movimento incessante di una fase offensiva in cui turbina la qualità, al solito inesauribile Kanté e al leader saggio Thiago Silva, che spiega meglio di ogni teoria quanto può essere potente scendere in campo con la serenità di chi ha già vinto.

All'opposto si colloca il Manchester City, costruzione al solito magistrale, creatura che vince, avvince, stringe, soffoca l'avversaria in un abbraccio fatale. Ogni febbraio siamo qui a ripeterci che questo è l'anno buono per il ritorno di Guardiola sul trono d'Europa, ma poi c'è sempre l'accidente a ricordarci quanto è infido il calcio. Il rocambolesco harakiri contro il Tottenham di sabato scorso suggerisce ancora una volta che nella partita secca, quando l'alta pressione appanna le idee al fattore umano, il City può perdere molte delle sue certezze di essere portavoce, parafrasando Voltaire, del migliore dei calci possibili. Ma non è spocchia, non chiamiamola spocchia: Guardiola sta proseguendo nella costruzione della sua personale Sagrada Familia ormai del tutto indifferente alle classifiche e la sua sfortuna è che a intervalli regolari – vale per tutti – le sue squadre debbano scendere a patti con quell'elemento accessorio che sono i risultati.

  

L'intellighenzia del pallone, gli alfieri del calcio romantico, quelli che sono sia contro la Superlega sia contro questa Champions (quindi non si sa bene a cosa aspirino) vedono come il fumo negli occhi la possibilità di una vittoria del Paris Saint Germain. Non hanno tutti i torti, benché lo spettacolo offerto a Parigi dal Real Madrid sia stato ben più misero, solo in parte spiegabile con l'assenza di Benzema. La scomparsa della regola dei gol in trasferta ha evidentemente acuito il pragmatismo di Ancelotti, convinto di cavarsela a buon mercato con uno 0-0 a oltranza: ma ancora una volta, in cauda venenum. Per il non gioco (zero tiri in porta) espresso al Parco dei Principi il Real Madrid meriterebbe di uscire, ma la sensazione è che al Bernabeu al Psg servirà comunque una prova di squadra da bacio accademico per passare il turno.

 

Una citazione finale la merita l'Ajax che pratica ancora una volta un calcio magnifico, arioso, ottimista, in cui le individualità brillano non in quanto tali ma grazie all'esattezza del sistema rifinito e smerigliato in queste stagioni da Erik ten Hag, artigiano della qualità (per luglio lo vorrebbe il Manchester United, che però deve prima risolvere l'equivoco Rangnick). L'Ajax 2022 è all'altezza della splendida versione 2019 che dopo aver marciato sul Bernabeu agli ottavi giocò il suo calcio migliore tra il secondo tempo di Juventus-Ajax e il primo tempo della semifinale Tottenham-Ajax. Non hanno paura di proporre calcio a tutto volume e nei loro momenti più ispirati viaggiano anche ad altezza Premier League: se si qualificheranno ai quarti possono essere una mina vagante anche per la coppa.

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