Il calcio di Alexandre Villaplane non era una truffa, la sua vita sì

Andrea Romano

La storia noir del capitano della Nazionale Francese ai Mondiali del 1930 tra calci a un pallone, gol, ippodromi e criminalità

 

L’uomo si incammina verso il muro di Fort de Montrouge. Avanza lentamente. Il piede destro davanti al sinistro. Mentre sente il cuore che martella nel suo petto. Il piede sinistro davanti al destro. Mentre prova a ignorare quegli ordini che lo colpiscono alla schiena. Si ferma qualche passo più avanti. Poi si gira lentamente. "Posso togliermi il cappotto?", domanda. "Sarebbe un peccato rovinarlo, lo volevo regalare a uno del plotone di esecuzione", dice. Lo hanno riconosciuto tutti. È Alexandre Villaplane. Eppure stavolta nessuno ha intenzione di chiedergli un autografo.

Non il quel pomeriggio del 26 dicembre del 1944. Non ora che la morte sta per inghiottirlo.

Quell’uomo è stato tante cose insieme. Prima il capitano della Nazionale Francese ai Mondiali del 1930, l’uomo che con la fascia al braccio aveva guidato i suoi compagni alla vittoria contro il Messico. Orgoglio nazionale, gioia condivisa. Ma quell’uomo era stato soprattutto un criminale. Aveva iniziato a collaborare con i nazisti. I francesi non li faceva più esultare. Ora li passava per le armi.

 

La sua parabola era iniziata diversi anni prima. Villaplane aveva giocato le Olimpiadi di Amsterdam del 1928. E si era fatto notare. Per il suo colpo di testa portentoso. Per la sua capacità di far viaggiare il pallone lungo corridoi immaginari. Se ne stava in mezzo al campo. A prendere botte. A dare botte. Una dopo l’altra. Una volta, contro  l’Irlanda, era stato colpito involontariamente da Blair. Villaplane si era fermato, aveva guardato l’avversario, l’aveva centrato con un pugno. E poi con un altro ancora. Per riportare la calma era stato necessario l’intervento dei compagni. Ma il francese non aveva voluto stringere la mano tesa di Blair. Per nessun motivo al mondo. Alla vigilia del Mondiale viene nominato addirittura capitano dei Bleus. "È il giorno più felice della mia vita", dice prima di salire sulla nave italiana che lo avrebbe portato in Uruguay.

Il calcio è ancora un hobby, non una professione. Ma Villaplane inizia subito a fare carriera. Passa dal Sète al Nîmes. Poi si accasa al Racing Club de Paris. Le società gli offrono un lavoro fittizio per giustificare il suo stipendio. Sono tanti soldi. Ma d’altra parte c’è solo una cosa a cui Alexandre non sa resistere: il denaro. Lo spende nei bar e nei locali notturni. Ma soprattutto negli ippodromi.

 

Nel 1932 la sua vita cambia. Per sempre. Il professionismo diventa realtà. Così il piccolo Antibes decide di mettere mano al portafogli. Villaplane costa una fortuna. Ma trasforma quella anonima società nella favorita alla titolo di campione di Francia. L’Antibes vince il torneo del Sud. E poi batte in finale l’SC Fives di Lille. Il nome di Villaplane finisce nelle cronache ma non in quelle sportive. L’Antibes gioca una partita a Bologna. Alexandre Villaplane viene raggiunto da una notizia. Tempo prima aveva comprato un biglietto della lotteria spagnola e lo aveva chiuso nella cassaforte del club. Bene, ora quel biglietto era diventato addirittura vincente. Fanno un milione e mezzo di franchi. Solo che quando torna a prenderlo per incassare la vincita, il tagliando è evaporato. Qualche tempo dopo viene fuori una storia ancora peggiore. La finale del campionato francese era stata truccata. L’allenatore viene squalificato. Una sentenza che si porta dietro una convinzione diffusa: il vero autore della combine sarebbe stato Villaplane. Il sospetto è confermato dalla decisione del club. Il contratto del centrocampista è rescisso. Con reciproca insoddisfazione.

L’ultima fermata si chiama Nizza. Ma il calcio è ormai un elemento residuale. L’attività primaria di Alexandre sono le truffe.

 

Nell’agosto del 1934 mette a punto un raggiro all’ippodromo di Enghien. Villaplane iscrive a una corsa un cavallo sconosciuto. Si chiama Hallencourt. E ci punta sopra un sacco di quattrini. Prima della gara sostituisce il quadrupede con il più quotato Ecureuil IV. D’altra parte i due si somigliano molto. Il cavallo fantasma vince. L’ex calciatore incassa. È un piano perfetto. La sua realizzazione molto meno. Qualcuno avanza dei dubbi. E chiama la polizia. Per scoprire la truffa basta qualche giorno. Villaplane viene arrestato insieme ai suoi complici. Alexandre si dichiara innocente, propone alla polizia di lasciargli due giorni di libertà per consentirgli di risolvere il caso, di trovare quel “Mister x dai denti d’oro” che sarebbe il vero responsabile dell’accaduto. Non gli crede nessuno. Così finisce in cella. Per sette mesi.

Nel giugno del 1940 i nazisti prendono Parigi. E iniziano ad assoldare i criminali locali. Servono a garantire un contatto diretto con il mercato nero. Chiedono di tutto. Armi, cibo, persino opere d’arte. Henri Lafont diventa una pedina preziosa. È un criminale locale, ma è anche devoto alla sua nuova causa. Tanto che si premura di catturare e torturare personalmente il leader della resistenza belga. Lafont ingaggia altri due elementi. Uno è Pierre Bonny, un noto poliziotto congedato per disonore per corruzione. L’altro è Villaplane. Nasce una banda. Che si fa chiamare Gestapo francese. Rubano, razziano, girano con le uniformi delle SS, rastrellano ebrei, torturano membri della resistenza. Il loro lavoro è talmente apprezzato che Alexandre diventa un sottotenente delle SS. Nel febbraio del 1944 guida la Brigata Nordafricana. Raccoglie immigrati. E ha il compito di ripulire la regione del Périgord. Quando l’onda d’urto dei nazisti si attenua Villaplane finge di fare il doppio gioco. Fa credere ai francesi di servirsi del suo prestigio presso i nazisti per salvare i suoi compatrioti. Dietro lauto pagamento, ovviamente. La sua teatralità lo aiuta. Almeno fino all’agosto del 1944.

Parigi è liberata. I collaborazionisti vengono catturati e processati. Villaplane non mostra il minimo rimorso. Anzi durante l’udienza si mette a ridere. Il resto della sua vita lo passa in attesa della morte. Che arriva il giorno dopo natale, su quel muro di Fort de Montrouge. Stavolta a colpirlo non sono le incitazioni dei tifosi. Ma il piombo dei proiettili di quel popolo che aveva tradito. 

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