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Il Foglio sportivo

Il Milan cercherà le risposte ai misteri di Olivier Giroud

Giuseppe Pastore

Stile e autostima a San Siro. Il destino dei rossoneri gira anche attorno ai piedi del suo nuovo numero nove. Un giocatore bello e utile

Nel campionato dei campioni d’Europa per Nazionali che in una sola estate ha perso Donnarumma, Romero, De Paul, Hakimi e Lukaku, gli unici attaccanti dall’estero sono arrivati dai campioni d’Europa per club: il Chelsea ci ha spedito il giovane Tammy Abraham, di cui sappiamo ancora poco, e il vecchio lupo Olivier Giroud, di cui crediamo di sapere quasi tutto.

Il Primo Mistero di Giroud è di natura statistica: come mai un centravanti forte e integro fisicamente, elegante, molto tecnico, non è mai riuscito ad andare oltre i 16 gol a campionato nelle nove stagioni trascorse in Premier League? Cosa gli ha impedito di innalzarsi, anche nell’immaginario popolare, al livello dei Lewandowski, Benzema, Cavani, Higuain, Suarez eccetera, insomma tutti i grandissimi suoi contemporanei? Perché il Chelsea lascia andar via sostanzialmente a zero il suo miglior cannoniere in Champions dell’ultima stagione (sei gol) per ricoprire di sterline il cavallo di ritorno Lukaku? Calma, diranno a questo punto gli estimatori: state pur sempre parlando del secondo cannoniere all-time della Nazionale francese (46 gol, cinque in meno solo di Henry).

La cosa curiosa di Olivier Giroud è che la sua carriera dovrebbe essere valutata sui numeri, come si conviene a ogni centravanti che si rispetti: ma quei numeri si contraddicono, si attorcigliano, si danno addosso sulla parola come politici in un talk-show. Per esempio, appartiene a Giroud uno dei dati più eclatanti del calcio moderno: sei partite da titolare nella Francia campione del mondo 2018, dove prendeva posto davanti a Griezmann e Mbappé, ma zero gol e zero tiri nello specchio della porta. S’ode a destra uno squillo di tromba: “Polveri bagnate, mai decisivo!”. A sinistra risponde uno squillo: “Grande lavoro oscuro, si sacrifica per la squadra!”. E così via.

Sempre restando nella numerologia, Giroud si è involontariamente divertito a rimescolare le acque, scegliendo il numero-spauracchio di questo decennio rossonero di bassa marea: il nove. Un numero 9 milanista non segna all’esordio in Serie A dai tempi di George Weah: 27 agosto 1995, contro il Padova, contestualmente all’ultimo gol della carriera di Franco Baresi e a Lamberto Dini presidente del Consiglio, per dare l’idea del tempo che è passato.

Dopo di lui hanno fatto cilecca Kluivert, Inzaghi, Pato, Matri, Torres, Destro, Luiz Adriano, Lapadula, André Silva, Higuain, Piatek e per ultimo Mandzukic. Non crediamo che Giroud sia stato avvertito di quest’elenco, ma gli va dato atto di aver iniziato la nuova avventura con uno spirito molto differente dai suoi predecessori, a cominciare dal malmostoso Pipita approdato al Milan stringendo al petto un vaso di Pandora colmo di paturnie, che saltarono fuori quando si accorse che le promesse di Leonardo non sarebbero state mantenute. Giroud invece è arrivato con le insegne di campione del mondo per Nazionali e campione d’Europa per club, privilegio condiviso solamente con Kanté, e all’ultimo Europeo è uscito indenne dagli schizzi di guano sparati dal ventilatore francese, indirizzati soprattutto su Mbappé.

 

Se ancora non avete appallottolato il vostro Foglio Sportivo dopo questa spataffiata di numeri e cognomi, meritate di essere introdotti al Secondo Mistero di Giroud: è solo bello? La citazione riguarda una famosa (più o meno) prima pagina di Tuttosport che nel 2013 aveva dato così il benvenuto al nuovo acquisto juventino Llorente, mettendo le mani avanti prima di accorgersi che il Leone di Pamplona era anche un fior di centravanti. La bellezza di Giroud non è solo banalmente fisica, ma anche agonistica. Avrete sicuramente visto l’incredibile colpo dello scorpione messo a segno il pomeriggio di Capodanno del 2017 contro il Crystal Palace, grazie a cui si aggiudicò il premio Puskas per il gol più bello dell’anno.

Per non andar troppo lontani, lo scorso febbraio ha risolto il complicatissimo ottavo di Champions contro l’Atletico Madrid chiuso a tripla mandata scardinando la testuggine di Simeone con un’acrobazia armoniosa come una scultura greca. Anche i due recenti gol in amichevole al Panathinaikos, segnati sabato scorso a Trieste, sono diversamente bellissimi: il primo di sinistro al volo, un movimento talmente fluido da sembrare facile, il secondo con un colpo di testa lento e beffardo che ha preso in controtempo il portiere greco. Saper abbinare il bello e l’utile denota sempre una certa personalità: non quella brutale dei serial killer alla Lewandowski, il cui ghigno ha ragion d’essere solo quando vede la palla in fondo al sacco, ma lo standing raffinato di chi ha un rapporto privilegiato con l’estetica, e per questo ha ampio diritto di cittadinanza nel San Siro di nuovo pieno e carico di voglia e aspettative che quest’anno non si limitano al semplice week-end, ma riguardano pure il martedì e il mercoledì sera.

Siamo dunque pian piano arrivati al punto, e cioè che Giroud non è Lewandowski, e a 35 anni da compiere a settembre osiamo dire che non lo sarà mai. Pur chiamandosi Oliviero ed essendo forte di testa, il che suscita dolci reminiscenze anni Novanta nei milanisti over 30, non è stato acquistato per fare l’ariete ma semmai per tirare di scherma e migliorare la fase offensiva del Milan un po’ dappertutto. In particolare, per affrancarla anzitutto moralmente dal totem Ibrahimovic, che l’anno scorso incuteva timore principalmente ai suoi compagni di reparto. Giroud ha valide motivazioni per guardare il divo Zlatan dall’alto in basso: come detto ha vinto un Mondiale e una Champions, ma anche un’Europa League da protagonista (con Sarri nel 2019) e ha sconfitto persino i qatarioti del PSG nella loro primissima versione, quando nel 2011-2012 si fecero intortare dal minuscolo Montpellier di cui era la punta di diamante (unica volta sopra i 20 gol in carriera e titolo di capocannoniere della Ligue 1). Casomai i sorteggi di Champions facessero tremare i polsi di troppi milanisti, a dicembre ha segnato quattro gol al Siviglia.

Non si potrà mai dire che è stato il miglior attaccante della sua generazione, nemmeno in Francia, perché oggettivamente Benzema è fuori categoria; e però, quando Benzema gli ha fatto le scarpe in Nazionale e lui s’è ritrovato ai margini, la Francia si è fatta sbattere fuori agli ottavi dalla Svizzera. Nessun allenatore se lo porterebbe in guerra, ma a un cocktail party, all’inaugurazione di una mostra, in una di quelle situazioni che capitano solo nelle commedie brillanti, lì sì.

C’è da capire quanto brillante vuol diventare il Milan 2021-2022, di un anno più vecchio ed esperto rispetto a quello che la passata stagione filò per sei mesi con il vento in poppa grazie a un entusiasmo incontenibile, prima di trascorrere una primavera angosciante ad attanagliarsi dalla paura di non farcela. C’è da capire cosa ha in mente Stefano Pioli, che ha attraversato indenne le colonne d’Ercole della famigerata (per lui) seconda stagione per riportare i rossoneri nella loro Itaca europea: e tutto questo per cosa? Può fermarsi così a metà del guado, una squadra che si chiama Milan? Giroud garantisce autostima, self-confidence, cosmopolitismo, swag calcistico come si evince da una rapida scorsa al curriculum che lo ha visto esibirsi per nove anni nella Londra più chic e fighetta, tra Arsenal e Chelsea. In una parola: stile. Nei prossimi giorni cadranno i quarant’anni di Storie di ordinaria follia, film scritto praticamente a quattro mani da Charles Bukowski e Marco Ferreri, che si apre con un memorabile monologo di Ben Gazzara sul significato di stile. “Lo stile è una risposta a tutto, un modo nuovo di affrontare la noia e le cose pericolose. Fare una cosa pericolosa con stile è quello che io chiamo arte. Sei aironi che stanno immobili in uno specchio d’acqua, oppure tu che esci nuda dalla vasca da bagno senza vedermi”. Probabilmente Giroud non segnerà venti gol nemmeno in Serie A: la bontà del suo acquisto si misurerà da quanto con l’esempio e con lo stile riuscirà a far crescere la terza squadra più giovane d’Europa, ricca di talenti a vario titolo ancora incompiuti, da Tonali a Rafael Leao passando per Rebic. C’è tanto lavoro da fare: reggere mentalmente il doppio impegno Champions-campionato, vincere la paura di San Siro che l’anno scorso era un problema persino da vuoto, guadagnare in cinismo senza perdere l’allegria. Sguainare il fioretto: en garde, prêt, allez!

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