Epica Olimpiade

A Tokyo 2020 Jacobs e Tamberi fanno la storia dello sport italiano

Giuseppe Pastore

Oro nei 100 metri e nel salto in alto per l'Italia alle Olimpiadi in un quarto d'ora. La notte giapponese perfetta per gli Azzurri

La cosa più dolce è la sensazione che subentra venti minuti dopo, quando l'adrenalina di una notte giapponese irripetibile va svanendo e lascia lentamente spazio alla consapevolezza. La più grande giornata della storia dello sport italiano senza dubbio alcuno: superiore all'11 luglio 1982, al 9 luglio 2006, a Mennea che sorpassa Wells in ottava corsia, ad Alberto Tomba, a Federica Pellegrini, al recentissimo 11 luglio 2021 dove avevamo un italiano in finale a Wimbledon e una Nazionale in finale a Wembley. Questo tir di emozioni ci ha travolto prendendo la rincorsa da lontanissimo.

Nel caso di Lamont Marcell Jacobs due ore prima, da quando lo strabiliante record europeo a 9”84 aveva ribaltato il tavolo della prima finale olimpica dei 100 metri post-Bolt sollevando le sopracciglia di milioni di italiani, pronti a quel punto a rimediare un abbonamento a Discovery o radunarsi in un bar con una granita in mano per le 14:45 pendendo dalle labbra di Franco Bragagna, nel più dolce degli stereotipi sulle domeniche d'agosto. Nel caso di Gimbo Tamberi ancora prima, molto prima, dal 15 luglio 2016, quando durante il meeting “Herculis” a Monte-Carlo il piede di stacco aveva ceduto di schianto nel tentativo di volare a 2,41, facendo erompere una sequela di disperate maledizioni.

Il marchigiano Tamberi e il bresciano Jacobs, nato a El Paso, Texas dove Quentin Tarantino ambienta il massacro al matrimonio di Uma Thurman in “Kill Bill”, ma talmente a disagio con l'inglese da scherzare subito dopo la gara sulla preoccupazione di dover concedere interviste televisive a mezzo mondo, colpiscono al cuore perché raccontano il sacrificio, il lavoro e la determinazione che flirta con la follia, con la sintesi disarmante e spettacolare di cui solo lo sport è capace.

Alla luce delle misure non più che buone saltate quest'anno, alla luce anche delle qualificazioni così così dell'altro ieri, la finale disputata da Tamberi non ha alcun senso: sette salti consecutivi uno meglio dell'altro, uno stato di grazia di due ore che si alimentava gasandosi per le prodezze altrui, dai tempi di Jacobs ai salti prodigiosi della venezuelana Yulimar Rojas, che nel salto triplo ha abbattuto un record del mondo datato 1995 in una delle tante sottotrame di una notte pazzesca. Un'altra è che il partner in crime di Tamberi, l'uomo che domani salirà con lui sul gradino più alto del podio olimpico, è il fenomenale qatariota Mutaz Essa Barshim che nel 2018 aveva patito lo stesso infortunio di Tamberi nelle stesse circostanze, in un meeting in Ungheria, nel tentativo di stabilire il nuovo record del mondo a 2 metri e 46.

Una terza, ancora più sconcertante se pensiamo alle vacche magrissime sofferte dalla nostra atletica nell'ultimo ventennio, è che da stasera l'Italia detiene i record europei dei 100 e 200 metri (ovviamente Mennea a Città del Messico 1979). Se in un anfratto della nostra mente possiamo anche considerare il salto in alto come una disciplina non del tutto aliena ai nostri colori, essenzialmente per le reminiscenze moscovite di Sara Simeoni e qualche exploit isolato di Antonietta Di Martino, vincere i 100 metri piani alle Olimpiadi è un disegno celeste che va al di là del bene e del male. Invece l'ha fatto Jacobs, miglioratosi di quindici centesimi tra batterie, semifinali e finale, con uno stile che gli dà piena cittadinanza nel gotha della velocità di tutti i tempi: quando ci saremo ripresi da questo hangover olimpico, i mille replay ci consentiranno di apprezzarne la morbidezza e la fluidità della progressione che lo porta a superare i quaranta all'ora col silenziatore, senza scomporsi, senza digrignare i denti, senza gemere di dolore, ma col magnifico stile di un italiano di lago a cui il destino ha dato un vicino di casa – Alberto Papa, commercialista di 59 anni ma soprattutto atleta master che è stato anche primatista italiano di salto in lungo over 50 anni - provvisto di pista d'atletica in giardino, per potersi allenare normalmente anche nei mesi più cupi del lockdown.

Coincidenze e congiunzioni astrali di uno sport vilipeso per anni, che sembrava destinato alla mortificazione del confronto con la Nazionale di nuoto più completa di sempre, e invece in un quarto d'ora ha lanciato alle stelle due urla formidabili che sono anticipo di una lunga felicità: i ragazzi sono in giro, da Nadia Battocletti finalista dei 5000 ad Alessandro Sibilio finalista dei 400 ostacoli, da Daisy Osakue a Filippo Randazzo, da Luminosa Bogliolo a Yeman Crippa, tutti loro passano il turno o comunque si migliorano, non vivono più i Giochi con il trac del palcoscenico ma con la voglia di divertirsi e correre, saltare, lanciare leggeri.

 

Ricordiamoci da dove veniamo, ricordiamoci dov'eravamo oggi. Quando vinse il salto in alto a Mosca 1980, in assenza dell'inno di Mameli (l'Italia aveva formalmente aderito al boicottaggio, partecipando a quei Giochi sotto le insegne del CONI), sul podio olimpico Sara Simeoni canticchiò commossa e sottovoce “Viva l'Italia” di Francesco De Gregori. E si sa che il Principe possiede tutte le risposte e tutte le chiusure migliori, compresa quella per incorniciare questo indimenticabile weekend olimpico, iniziato con le polemiche per qualche flop di troppo tra scherma, nuoto e tiro al piattello e terminato in gloria con due ori spaziali: l'Italia che si dispera, e l'Italia che s'innamora.

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