La quinta finale di Federica Pellegrini

Roberto Perrone

Cinque finali consecutive risarciscono la Divina, parlano di continuità ad alto livello. Testimoniano di carattere oltre la tecnica, di applicazione oltre lo stile, di grandezza assoluta. "In questa finale ci sono vent'anni di vita" dice

L'araba fenice sulla parte sinistra del collo guizza più degli altri tatuaggi. È stato il secondo della collezione della Divina (il primo in assoluto il dragone sulla caviglia, a 14 anni) ma questo, simbolo della rinascita, è il più significativo, quello che, più di tutti gli altri, racconta la storia umana e sportiva di Federica Pellegrini, la prima atleta del nuoto femminile a gareggiare in cinque finali olimpiche nella stessa gara, i 200 stile libero. A Tokyo, in un impianto deserto, si è seduta accanto all'immenso Michael Phelps, il divoratore di medaglie (28 quelle ai Giochi, altro primato) e di zuppa di cozze di mamma Deborah. Dopo una batteria preoccupante (15esimo tempo), Federica ottiene il settimo crono (1'56"44) in semifinale e piange commossa per questa impresa, come una concorrente di Italia's got Talent a cui lei, da giurata, ha dato il suo sì. Per un istante rivediamo il volto della ragazzina che, a 16 anni e 17 giorni, arrivò seconda ad Atene 2004, beffata dalla giovinezza, dalla carneade Potec e dalla sua evidente superiorità che non le segnalò la romena in ottava corsia. Le migliori, attorno a sé, le aveva staccate tutte e pensava di essere sola.

  

Ecco, questa quinta finale, questo spingere la carriera un po' più in là, la risarcisce, in parte, del raccolto olimpico, inferiore alle sue potenzialità e alle sue aspettative. L'araba fenice l'ha sempre fatta rinascere ai Mondiali, mentre ai Giochi le è mancato qualcosa, le sono mancate almeno tre medaglie, di cui una d'oro. A Pechino, quando la vinse, poteva anche conquistare quella dei 400 ma affondò in una gara che ha dominato per anni ma che non ha mai amato e che, più di una volta, le ha provocato delle crisi di panico. A Londra, se ci fosse stato ancora Alberto Castagnetti, forse sarebbe andata diversamente, non solo lei ma tutta la spedizione azzurra, affondata tra egoismi e inimicizie. Però cinque finali consecutive la risarciscono, parlano di continuità ad alto livello, le scavano una nicchia nella storia, sono qualcosa di enorme, testimoniano di carattere oltre la tecnica, di applicazione oltre lo stile, di grandezza assoluta. Punto. Federica Pellegrini è la più grande atleta olimpica dello sport italiano.

   

   

Ariarne Titmus, l'australiana che punta a detronizzare Kathie Ledecky nei 200, dopo averla superata nei 400, nel 2004, quando la Divina conquistava l'argento ad Atene, non aveva quattro anni. "In questa finale ci sono vent'anni di vita" dice Federica tra le lacrime. "Non mi racconto palle, è un anno che nuoto 1'56"". No, a quasi 33 anni, questa è la realtà, questa è la meraviglia di un'atleta che, per usare un'espressione spesso banalizzata, ci ha sempre messo la faccia, rinascendo da molte ceneri, da errori, da sconfitte, da valutazioni errate, da allenatori licenziati (con Matteo Giunta ha raggiunto la serenità del periodo di Castagnetti, cercando spesso nemici che non c'erano (alla Antonio Conte/Josè Mourinho) per trovare stimoli e cattiveria. Adesso viene il tempo del divertimento. Adesso, diciassette anni dopo l'argento di Atene, tredici anni dopo l'oro di Pechino, la Divina può gareggiare senza avere nulla da perdere, senza dimostrare alcunché. Per lei è la condizione migliore. L'onere della prova, della prestazione è tutta sulle giovani avversarie. Senza illusioni, ma con gratitudine per il nuoto che è stato la sua vita, prenderà quello che arriverà. E noi con lei, grati per le emozioni che non ha mai lesinato. Con Federica Pellegrini non è mai finita, l'araba fenice è in volo.

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