(foto Ansa)

Il Foglio sportivo

Una questione di gruppo. Il basket azzurro a Tokyo 2020

Umberto Zapelloni

Come è riuscito Meo Sacchetti a riportare la pallacanestro italiana alle Olimpiadi. “Qui nessuno se la tira”

Tra Roberto Mancini e Meo Sacchetti c’è la stessa differenza che potete trovare tra una tartina al salmone e un panino al salame. Sono come l’estate e l’inverno. Ma hanno in comune molto più di quanto sembra quando li mettete accanto uno all’altro. Arrigo Sacchi ci aveva insegnato che non era necessario essere un cavallo per diventare un fantino. E dopo di lui ne sono arrivati altri a cominciare da José Mourinho che infatti ora viaggia in Vespa. Mancini e Sacchetti sono stati dei purosangue prima di diventare fantini e oggi riescono a galoppare meglio di tanti loro colleghi. In comune hanno lo spirito dello spogliatoio. Sanno che cosa dire e che cosa non dire. Esser stati giocatori può anche portarli a sbagliare qualche volta. Ma sanno quando arrabbiarsi e quando chiedere durante un minuto di sospensione decisivo: “Tu preferisci uscire dal blocco a destra o a sinistra?”, oppure che cosa dire per sdrammatizzare prima di andare a battere i calci di rigore in semifinale. Sanno dare fiducia al giocatore in crisi. Hanno imparato a non piangersi addosso quando il destino sembra voltare loro le spalle. Mancini aveva già perso Zaniolo da tempo, quando ha dovuto fare a meno anche di Sensi, Pellegrini e a giochi iniziati pure di Florenzi. Poi gli è saltato anche Spinazzola uno dei migliori. Sacchetti quando era lì con il suo elenco dei convocati ha ricevuto la telefonata a sorpresa di Marco Belinelli e Gigi Datome che rinunciavano al preolimpico e di Danilo Gallinari che era impegnato nei playoff Nba. Mancio e Meo non hanno fatto una piega. Hanno lavorato sul gruppo. Hanno lavorato per sostituire il talento dei singoli con lo spirito di squadra. Si sono garantiti anni di inviti lautamente pagati nelle convention aziendali del dopo pandemia. Mancini ha cominciato subito ad allenare fasciato in un bel cachemire su una panchina di Serie A, ma poi è dovuto andare all’estero a diventare un grande. Sacchetti ha cominciato in C2 da terzo allenatore, ha fatto la C2, è salito in B, poi è arrivato al cachemire. Percorsi diversi, ma punti di partenza simili: lo spogliatoio di squadre vincenti.

“Abbiamo vinto in Serbia perché qui nessuno se la tira”, ha detto il coach che ha riportato l’Italia del basket ai Giochi olimpici dopo 17 anni dopo che già aveva interrotto un’assenza di 13 anni dai Mondiali. Potrebbe cominciare a tirarsela un po’ lui. Ma se non lo ha fatto dopo aver regalato a Sassari un triplete e a Cremona una Coppa Italia è difficile che lo faccia adesso che è riuscito là dove cinque anni fa (con tutti gli azzurri della Nba in azzurro) aveva fallito sua santità Ettore Messina.  Il “qui nessuno se la tira” pronunciato da Meo assomiglia da matti al “qui abbiamo 26 titolari” di Roberto Mancini. La forza del gruppo. Tutti per uno e uno per tutti come nei romanzi di Dumas padre. Ha funzionato nel calcio come nel basket. La mancanza di stelle ha trasformato la squadra in una squadra stellare. Alla fine non avere Belinelli, Datome e Gallinari forse ha fatto bene al basket azzurro, ha tolto responsabilità al gruppo, ha fatto giocare tutti con la leggerezza nell’anima e una determinazione pazzesca nel corpo. Mai visto un Polonara così. Il Pupazzo, come si fa chiamare sui social, è diventato grande giocando lontano dal nostro campionato. Esattamente come Fontecchio, Vitali, capitan Melli e quel peperino rosso di Nico Mannion catapultato in azzurro direttamente da Golden State grazie all’amore di mamma Gaia per papà Pace. Gli italiani c’erano, bastava andare a cercarli. Esattamente come ha fatto Mancini vestendo d’azzurro ragazzi che nelle precedenti gestioni non sarebbero arrivati a Coverciano neppure pagando di tasca loro.

Un’altra grande differenza tra Mancini e Sacchetti è che Roberto si è circondato con il suo magico cerchio rossoblù, da Vialli a Lombardo fino a Salsano, Evani e Nuciari. Con l’aggiunta di Oriali e De Rossi, due che è sempre meglio averli in squadra. Sacchetti ha dovuto rifare la sua squadra tecnica affiancando al fido Lele Molin, Piero Bucchi e Paolo Galbiati. Un suggerimento di Petrucci, dice qualcuno. Sta di fatto che mentre Mancini ha firmato il rinnovo del contratto con la Federazione prima di cominciare l’Europeo, Sacchetti è andato a Belgrado con un solo biglietto di andata in tasca. Se non avesse fatto il miracolo la sua avventura azzurra sarebbe finita lì, anche se adesso Petrucci racconta di averlo confermato la sera prima della partita decisiva. “Sì è vero mi ha detto che avremmo continuato insieme però lì per lì non ho capito che volesse confermarmi, pensavo fossero frasi dette così anche per darci l’ultima carica”. A qualificazione ottenuta il presidente poi lo ha baciato e ha ufficializzato un rinnovo fino all’Europeo 2022 da firmare presto. Meo a caldo ha risposto a modo suo: “Ora non me ne frega nulla: ho il contratto fino a settembre. Ne parlerò con mia moglie”. La signora si chiama Olimpia e in casa è quella che comanda.  “Sarà per il suo nome, ma lei ci ha sempre creduto. Prima che partissimo mi ha detto: ho buone sensazioni. Quando l’ho conosciuta sono andato in Nazionale da giocatore e ho vinto l’argento a Mosca…”. Tutto lascia pensare che il suo amore per l’azzurro e la scorza dura che ormai si è costruito attorno, gli faranno dire di sì al futuro in Nazionale. Anche perché con questi ragazzi si sta divertendo un mondo. E Meo è uno che quando si diverte rende il doppio. I video che lo vedono ballare sul pullman tra gli azzurri confermano. D’altra parte lui era un ballerino anche da giocatore quando saltava gli avversari lanciato come un Tir, ma agile come una 500 Abarth.

Mancini ha telefonato a Sacchetti dopo l’impresa di Belgrado. Sacchetti ha spedito un messaggio e qualche meme a Mancini dopo la semifinale con la Spagna: “Non lo avevo chiamato le altre volte, noi siamo superstiziosi…”. Si tiene la telefonata per domani sera. Intanto prepara la valigia. Ci ha messo anche Gallinari. Dispiace per Abbass, ma è giusto così. Il Gallo darà qualcosa in più senza fare la star. Non è da lui. “A Tokyo non andiamo solo per sfilare”. Intanto il tatuaggio con i cinque cerchi può aspettare. Sarà suo figlio Brian, un professore sull’argomento, a consigliarlo per evitare guai. 

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