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Euro 2020

“Football's coming home”, la musica leggerissima dei tifosi inglesi

Enrico Veronese

Il rapporto tra musica pop e calcio, a Londra e dintorni, è incorporato fin dalla placenta. Ora si canta di nuovo l’inno dei Lightning Seeds, perfetto singolo britpop dei citazionisti anni Novanta, che venne inciso per accompagnare la Nazionale del 1996 per cantare la riscossa dopo trent’anni di sofferenze

Dai pub di Manchester agli schermi di Trafalgar Square, dalle spiagge di Brighton ai dintorni del Cave, il coro ossessivo risuona da giorni per strada. Lo cantano i soldati, i figli alcolizzati, i preti progressisti, lo senti nei quartieri assolati che rimbomba leggero, si annida nei pensieri e tiene in piedi una festa: “Football’s coming home”, come del resto doveva succedere trent’anni fa agli Europei casalinghi (viene da chiedersi se i presenti non lo siano, con tutta la fase finale ubicata a Wembley), o prima della doccia croata in Russia. Eppure, mai: l’inno dei Lightning Seeds, la musica leggerissima degli inglesi accresciuta di anno in anno nel numero degli years of hurt – ora cinquantacinque – manco fossero gli anelli nel tronco di un albero, spopola come chiodo fisso per chi ancora si ritiene l’inventore del calcio, e quindi un sacrilegio che esso abiti altrove. 

Il brano di David Baddiel e Frank Skinner, perfetto singolo britpop dei citazionisti anni Novanta, venne inciso per accompagnare gli uomini di Venables alla riscossa dopo trent’anni di sofferenze (ultimo e unico successo, ancora inchiodato, i discussi mondiali del ‘66): se è vero che “in ogni opera d’arte che si rispetti, come minimo c’è tutto”, il testo affronta il tipico disincanto di chi sa in anticipo che perderà ancora a un passo dalla fine, tuttavia convinto che stavolta no, è quella giusta per riportare un titolo e una coppa tra le braccia di Elisabetta. 

Incassata l’ennesima delusione per l’errore dal dischetto dell’attuale ct Southgate, due anni dopo – in preparazione dei mondiali di Francia – era stato proprio un gagliardo 0-0 a Roma, nelle qualificazioni, a infondere nuova disperata fiducia alle maglie bianche. Così i Lightning Seeds, lungi dall’essere accusati di aver portato sfortuna (ah, popoli civili), riassestano la canzone: “No more need for dreaming”, smargiassata punita dai rigoristi argentini intrisi di propaganda. Un popolo più fatalista, a quel punto, accantona per sempre “Three Lions” e i suoi autori: non gli inglesi del post Brexit, fiduciosi più che mai – stavolta con qualche appiglio – di uscire vincitori da Wembley. 

Il conto in banca e i dividendi SIAE di Baddiel e Skinner paiono quasi marciarci sopra: più l’Inghilterra appare vicina a un trofeo, più il pezzo viene riprogrammato per il prossimo. Consci come sono che, se domenica l’Inghilterra dovesse vincere, il pezzo compirebbe il suo corso autoavverandosi. Anche se va ricordato come – dopo l’autodichiarato splendido isolamento d’anteguerra – la nazionale inglese cominciò a prendere ramazzate non appena si è affacciata da casa verso il mondo: addirittura dai dilettanti americani, ovvero migranti italiani, haitiani, irlandesi e latini che il 29 giugno 1950 batterono il mitico Mortensen, sir Alf Ramsey, l’eterno Stanley Matthews nel caldo di Belo Horizonte.

Il rapporto tra musica pop e calcio, a Londra e dintorni, è incorporato fin dalla placenta: canzoni diventano cori da stadio e viceversa, qualche lustro fa era stato pubblicato un disco di chants delle terraces ritmati electro in battuta, per il pubblico dei club. Dello stesso liquido amniotico, ovviamente, fa parte l’ossessione italiana per l’anglofona “Seven nation army”, dilagata alle altre curve in tutto il torneo. Per contrappasso, i tifosi inglesi amano anche l’eurodance italiana degli anni Novanta: “Freed from desire”, prodotta da Molella e Phil Jay per Gala, è tuttora l’anthem più in voga dopo che i fan di Belfast lo avevano imposto intonando “Will Grigg’s on fire, your defense is terrified”. Il fatto che entrambe queste hit siano riconducibili al 1996 la dice lunga del deserto di questo secolo, e della retromania imperante: se domenica vincerà l’Italia, benissimo. Se perderà, almeno che sia finita una volta per tutte col football coming home.
Enrico Veronese

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