Al Tour de France vince Alaphilippe. Una questione di inesorabilità

Giovanni Battistuzzi

Il campione del mondo a Landerneau vince la prima tappa della Grande Boucle e veste la prima maglia gialla. Tutto come doveva andare. L'idiozia di una spettatrice e l'imperizia mandano a terra due volte il gruppo

Lì dove finisce la terra, Finis terrae almeno per i romani, lì dove c’è la punta del mondo, Penn-ar-bed almeno per i bretoni, Julian Alaphilippe ha iniziato a costruire il suo mondo, versione estiva. Ci pensava da mesi, si augurava potesse andare in un certo modo. Lo stesso che ha messo in scena negli ultimi chilometri della prima tappa del Tour de France. Ci teneva. Per dedicare la vittoria al figlio nato da poco, per vestire subito la maglia gialla, per rinfrescare un po’ le statistiche. Una vittoria di un francese nella prima tappa mancava da vent’anni, dal 2001, dal successo di Christophe Moreau nella cronometro di Dunkerque. Aveva studiato un piano, sapeva che era buono, perfetto a patto di avere le gambe giuste per metterlo in pratica. L’ha messo in pratica.

Gustave Leessaux era un linguista bretone che per decenni studiò l’evoluzione della lingua locale. Nell’ultimo periodo della sua vita dedicò una ricerca alle parole autoctone, quelle che non hanno agganci di alcun tipo con le lingue latine. Tra queste c’era dibedenn, che a una traduzione superficiale coincide con inesorabile, ma che ha un significato molto più ampio dell’inexorable francese. Questo termine oltre al significato classico di non lasciarsi vincere, di essere implacabile, aggiunge una sfumatura di pianificazione, quasi a significare che non ci può essere inesorabilità senza crearla, renderla possibile. Leessaux sosteneva che il termine fosse rimasto pressochè immutato da prima della diffusione del cristianesimo perché non ci sono usi figurati legati al destino, all’impossibilità di sottrarsi a qualcosa come nel termine francese (e italiano).

Julian Alaphilippe non è bretone, ma dibedenn è un termine che descrive perfettamente i suoi ultimi chilometri, il suo abbassare le mani sulla parte bassa del manubrio, il suo alzarsi sui pedali per accelerare, staccare gli avversari, ottenere la miglior solitudine, quella che conduce al traguardo. La sua azione aveva un’inesorabilità pianificata, una sicurezza non fideistica ma scientifica. Non c’era nulla lasciato al caso, solo la messa in scena di uno spettacolo ripetuto mille volte nella sua testa. Prima riuscitissima, applausi.

Il Tour de France di bretone ha invece solo la Grand Départ. Non può essere altrimenti per una corsa che termina per regola aurea a Parigi. Meglio non parlare a un bretone della capitale. La Grande Boucle è neolatina, trova la sua dimensione preferibilmente al sud, lascia al nord spesso solo un intermezzo, una rapida comparsata. E lo è a tal punto che qualcosa di inexorable lo riesce a portare pure in Bretagna. Perché se c’è una cosa quasi certa al Tour è che quasi subito qualche caduta spezzerà il gruppo, segnerà in modo inesorabile, nel senso di impossibilità di sottrarsi a qualcosa, il cammino dei corridori. Spesso tutto questo accade quando la corsa è solo un abbozzo, senza neppure aspettare il passaggio sotto il primo striscione d’arrivo. L’edizione 2021 non ha fatto eccezione. C’ha pensato una spettatrice alquanto disinteressata alla corsa, ma molto attenta alla gloria illusoria di una telecamera. Si può andare a bordo strada per vedere una corsa e girarsi dall’altra parte quando passano i corridori? Sì, si può. Se lo si fa con un cartellone assai ingombrante però è peggio, si rischia di mandare a terra mezzo gruppo. Eventualità che si è palesata. La ragazza sicuramente ha trovato la visibilità che auspicava. Per qualche giorno in molti la ricorderanno come la cretina che ha fatto cadere decine di corridori al Tour.

L’idiozia non è però inesorabile. È semplicemente idiozia. A essere inesorabile invece è quanto accaduto qualche decina di chilometri dopo, ossia la solita caduta da primi giorni di Tour. Strada in leggera discesa, velocità alta, distrazione, patapum. A uscire ammaccati in tanti, tra loro Chris Froome, venuto in Francia senza l’assillo della classifica e ritrovatosi già dopo 198 chilometri con quasi un quarto d’ora sul groppone.

Foto LaPresse

Un po’ meglio è andata a Miguel Angel Lopez, Emanuel Buchmann, Ben O’Connor e Guillaume Martin: 1’49” è una mazzata alle buone intenzioni, ma quanto meno non è la fine di tutto. Tocca essere un minimo ottimisti. Soprattutto a inizio corsa.

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