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Euro 2020

Quando Italia-Svizzera la giocavano sui prati svizzeri gli immigrati italiani

Giovanni Battistuzzi

Erano gli anni Cinquanta e dalla penisola in molti avevano varcato le Alpi in cerca di lavoro. In quegli anni "il pallone si trasformava in rivalsa di classe, anche se questa rivalsa arrivava mai davvero"

L’integrazione la provarono a costruire tiro dopo tiro sui prati. E poco importa se non arrivò mai davvero, che si materializzò solo in parte per qualche ora soltanto, quel minimo per sentirsi un po’ meno diversi. L’integrazione era un cancello aperto, un rettangolo verde con l’erba tagliata bassa, due porte di quelle vere, e qualche linea in gesso, “pure quelle che delimitavano le aree di rigore e quella di centrocampo. All’epoca era una cosa da non credere. E infatti mica ci credevamo davvero. Solo quando siamo arrivati e abbiamo visto che  la cancellata era aperta e che ci aspettavano per giocare, ci siamo accorti che era  reale. Sembra una cosa da niente, ma quando si ha poco  anche una roba del genere è tanto, tantissimo”.

Angelo Predolin aveva quattordici anni quando aveva lasciato San Martin de Coe, borgo tra Conegliano e Vittorio Veneto, per seguire il padre in Svizzera. Prima Lugano, “ma sei mesi appena”, poi su verso Lyss, a pochi chilometri dal lago di Bienne. “Era il 1952, in Veneto di lavoro ce n’era poco e di campi non ne avevamo, quindi si faceva fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Un parente di mio padre era in Svizzera dal 1949, diceva che lavoro ce n’era, che era vita dura, ma quantomeno si mettevano via soldi buoni. Tentammo l’avventura”, dice Angelo Predolin al Foglio.

La vita era più che dura. Lugano era un inferno, “condizioni infami. Lavoro, lavoro, lavoro e una baracca puzzolente giusto per dormire. A Lyss invece era meglio, si lavorava molto, ma tutto sommato si viveva in condizioni quasi decorose. Facevamo gli stallieri. Mio padre si occupava delle mucche, della mungitura e di altre mille robe, io invece spalavo merda e portavo fieno”.

Di italiani in zona ce ne erano parecchi: “Muratori, agricoltori, spurgatori. Pensa a un lavoro duro e schifoso e c’azzecchi: lo faceva un italiano. Ci trattavano con sufficienza, eravamo gli immigrati, valevamo poco più di niente per loro. Però ci si divertiva, si giocava a carte e soprattutto a calcio”, ricorda Predolin. “Ero un’ala destra, ma sapevo calciare anche di sinistro. Ero veloce, ma il mio punto forte era il cross, il pallone andava sempre dove volevo che andasse. Il mio difetto era il dribbling, ma fossi stato bravo pure in quello avrei giocato per davvero. Mi presero subito in squadra gli italiani. Ero il più piccolo, c’era gente anche di quarant’anni. Giocavamo tra noi, ogni tanto però anche contro i locali”.

Di partite tra immigrati e svizzeri ce ne sono state a centinaia, forse a migliaia in quegli anni. “Lo sport più amato e seguito in quegli anni era il ciclismo. Il Giro di Svizzera se la rivaleggiava, per lustro e premi, con Giro e Tour, le biciclette erano il vanto della nazione. Eppure a ricordare quel tempo mi vengono in mente le partite infinite nei campi attorno a Lugano, lì dove gli italiani giocavano scalzi tra loro. E a volte pure contro gli svizzeri. In quei casi le partite diventavano finali mondiali. Il pallone si trasformava in rivalsa di classe, anche se questa rivalsa arrivava mai davvero”, scrisse lo scrittore svizzero Hugo Loetscher negli anni Ottanta.

Inizialmente era una questione d’orgoglio nazionale. “Era così, lo è stato per lungo tempo. Ma noi dell’orgoglio nazionale non ce ne facevamo nulla. Per questo io, Vittorio Pasqualon, e Markus Lig, uno svizzero che era un morto di fame come noi ma che in paese conosceva tutti, provammo a fare qualcosa di più. Organizzammo un torneo. Si giocava a Bienne, in un campo vero. C’erano otto squadre, pure quella del dopolavoro della Swatch. Roba seria, una cinquantina di spettatori a partita. Noi italiani eravamo i più forti. C’era un tizio della Basilicata, un certo Mario, che poi ha fatto pure la Serie B. E in attacco avevamo un piemontese che aveva giocato negli anni Trenta con la Pro Vercelli. Uno squadrone”.

Era il 1954 e quel torneo lo vinsero: “4-2 in finale contro la squadra del dopolavoro di un’azienda che faceva plastica. La primavera successiva lo si rifece. Questa volta lo organizzarono gli svizzeri: dodici squadre e pure uno sponsor che aveva messo in palio un premio. A fare i conti era quasi due settimane di stipendio”. La squadra degli immigrati italiani quel torneo però lo perse. “Eravamo ancora i più forti, ma a vincere si facevano meno soldi che a perdere. Sulla collinetta a bordo campo c’erano anche centocinquanta spettatori e in molti scommettevano. E a noi ci davano sempre favoriti. Facevamo scommettere uno contro di noi e poi dividevamo. Vincere poteva anche darci gioia e una spruzzata di gloria, ma noi volevamo solo fare il gruzzolo giusto il prima possibile e tornarcene in Italia”.

Questa sera Italia-Svizzera andrà in scena a Roma, seconda partita per gli Azzurri della fase a gironi di Euro 2020. "Noi contro gli svizzeri vincevamo. Speriamo possano farlo pure i nostri giocatori. La cosa che mi fa stare sereno è che loro sono seri, mica come noi che per una bistecca eravamo disposti a tutto".

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