Il Foglio sportivo
E adesso parliamo di azionariato popolare?
Un’idea che ritorna, una filosofia diversa di business sportivo che sottolinei nel contempo anche la rilevanza sociale del fenomeno calcio. È possibile portarlo in Italia? Parlano Massimiliano Romiti e Diego Riva
A Manchester ora c’è qualcuno che ci crede sul serio: far cadere l’impero dei Glazers – fortino del calcio multinazionale, lievito madre della Superlega – per riformulare la struttura societaria a favore di una maggiore partecipazione popolare. Il MUST (Manchester United Supporters Trust) negli scorsi giorni ha incontrato pure Boris Johnson per enfatizzare l’urgenza di una normativa che, in terra britannica, dia maggior spazio ai tifosi in seno ai club, e al di là delle uscite politiche e dell’entusiasmo del momento, le parole dell’associazione dei tifosi dei Red Devils centrano la questione: “Questo deve essere un punto di non ritorno per il calcio, e pure per lo United. Ed Woodward (ex vicepresidente del club, dimessosi proprio questa settimana; nda) sta lasciando la squadra, ma non abbiamo mai avuto nulla di personale contro di lui. No, i problemi al Manchester United sono di proprietà. Con la partenza di Ed, e il progetto Superlega in brandelli, forse i Glazers dovrebbero considerare se ora non è il loro momento di lasciare il campo. Ma non vogliamo che vendano al miglior offerente e che i fan restino in disparte in attesa di scoprire chi subentrerà. Questa è una reale opportunità per i Glazers di cambiare e aprire le porte a una partecipazione azionaria dei sostenitori con pieno diritto di voto”.
La strada dell’azionariato popolare – ovvero aprire i club alla partecipazione dei tifosi – da molti anni viaggia sottotraccia nelle cronache sportive, con modelli vari, più o meno fortunati, che anzitutto propongono una filosofia diversa di business sportivo che sottolinei nel contempo anche la rilevanza sociale del fenomeno calcio. “L’affaire Superlega ha avuto il merito di rimettere in discussione il tema”, dice al Foglio Sportivo Massimiliano Romiti, avvocato torinese (e torinista), consigliere dell’associazione Toromio e presidente di “Nelle origini il futuro”, comitato che aggrega vari marchi di tifosi italiani interessati a impegnarsi coi rispettivi club, nonché promotore di una proposta di legge in tema di partecipazione nello sport. I contenuti di quel testo, apprezzati nel 2019 all’epoca del primo governo Conte dai sottosegretari Giorgetti e Valente, tanto da ispirare un punto della legge delega della Riforma dello Sport, si sono poi arenati coi successivi cambi di governo.
“Certo, quello che è emerso in questa settimana lascia sperare che il discorso possa essere ripreso: il sistema calcistico a livello economico non regge più e vede il rapporto con gli appassionati ai suoi minimi storici”. Cosa manca, allora, al nostro paese? Romiti cita un intervento radio di Marco Bellinazzo, giornalista che per il Sole 24 Ore cura il blog Calcio e Business: “Un diverso quadro normativo, ma anche un forte associazionismo di tifosi sul territorio: non sono facilmente riconoscibili i bacini di passione, mentre all’estero, dove la partecipazione spesso si identifica in una componente associativa, è ben diverso. L’alleanza tra l’associazionismo di tifosi e i club sarebbe il valore da promuovere”.
Il modello tedesco (che con la regola del 50 per cento +1 concede ai tifosi la maggioranza delle quote di un club) resta un faro, ma attenzione: “L’Italia ha una storia molto diversa dalla Germania, dove l’associazionismo dei tifosi nelle società sportive professionistiche non è mai sparito. Qui da noi bisognerebbe però almeno ricominciare a reintrodurlo con una piccola quota partecipativa”, conclude Romiti.
Chi si chiede se da questa fase di crisi per il calcio possa sorgere qualcosa di buono è anche Diego Riva, avvocato e punto di riferimento di Supporters in Campo, associazione che raccoglie in Italia l’esperienza di Supporters Direct Europe, rete che promuove la governance e la proprietà delle società sportive da parte dei tifosi. “È possibile, oggi, un cambiamento culturale che faccia diventare il tifoso da semplice appassionato a qualcosa di più? A me ha sorpreso vedere come i supporter hanno reagito, soprattutto in Gran Bretagna: non mi aspettavo tanta enfasi, segno che attorno al calcio c’è una passione che va ben oltre l’aspetto economico: è qualcosa di culturale e sociale”.
“Il calcio non è una pura forma di intrattenimento: è un ecosistema culturale, fatto di passione, in cui si intrecciano rapporti, storie e identità territoriali – si legge nel comunicato stampa di Supporters in Campo – Questa convulsa fase ci offre l’occasione per ripensarlo, renderlo più sostenibile e competitivo, attraverso meccanismi di ridistribuzione a beneficio dell’intera piramide e coinvolgendo attivamente i tifosi nella governance dei club e nel confronto continuo con gli stakeholder”.
Certo, tutto ciò chiede impegno e fatica. Riva, che conosce diversi esperimenti di azionariato popolare sorti (e talvolta falliti) in Italia, avverte: “Non basta dare in mano le società ai tifosi per risolvere i problemi: in alcuni contesti, nel nostro paese, non ci si è accorti fino in fondo che dalla protesta occorreva passare al vivere il calcio fino in fondo, da professionisti. Deve essere un impegno, un investimento”. L’esempio più stimolante, per Riva, restano i tedeschi del St Pauli: “Ad Amburgo entri in quel quartiere e vivi, respiri quella squadra: c’è un’immedesimazione piena tra società e la gente. Questi modelli sarebbero sostenibili da noi se ci fosse maggiore solidarietà e ridistribuzione delle risorse”.
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